Il dibattito che in questi giorni anima le conversazioni tra amici, e spesso occupa un posto centrale anche nella vita di famiglia, riguarda il tema della pace e della guerra, delle potenziali contraddizioni in cui sono immersi gli stessi pacifisti, quando si sentono porre la classica domanda: La pace sì, ma fino a che punto!? Come se dopo ottant’anni di pace, almeno in quella parte dell’Europa che chiamiamo Unione Europea, si fosse sollevato un velo e fosse venuto meno un tabù: di guerra si può e si deve parlare, il che non equivale a dire che si debba fare la guerra!
L’argomento è diventato virale da quando l’UE ha imboccato la via del riarmo: quanto è lecito, anzi doveroso e necessario investire in armamenti e come dovrà organizzarsi l’Europa sotto il profilo militare: con un suo esercito, con eserciti nazionali più forti? E se sì, per quali obiettivi, sotto la guida di chi, e soprattutto a chi toccherà prendere le indispensabili decisioni?
In una realtà come l’attuale, in cui l’Europa non ha una politica estera condivisa, ma molteplici e contrastanti obiettivi, è difficile immaginare una risposta coerente a tutte queste domande. Eppure, sono le domande che volteggiano nell’aria e scatenano discussioni senza fine nell’opinione pubblica, confusa e disorientata anche dalla difformità delle posizioni che i partiti hanno preso recentemente; non solo una difformità tra partiti e schieramenti, ma addirittura nei partiti e negli schieramenti. Un bel caos dialetticamente acceso, spesso gridato e ben faticosamente moderato.
Riepilogare alcuni dei principi di natura bioetica e bio-giuridica, indispensabili per definire il quadro biopolitico può comunque essere utile ed efficace. Non è difficile fare una premessa di questo tipo: la guerra implica la violazione del diritto alla vita di persone innocenti e, pertanto, per sua natura è contraria al diritto. L’articolo 11 della nostra Carta costituzionale afferma esplicitamente che l’Italia ripudia esplicitamente la guerra quale “strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali”.
E la Carta delle Nazioni Unite – fondamento del moderno diritto internazionale – vieta ogni conflitto bellico ed ammette, a titolo di eccezione, che si possa usare lo strumento militare per respingere attacchi armati con l’obbligo di informare immediatamente il Consiglio di sicurezza perché metta la situazione sotto il proprio controllo.
Un’esplicita elaborazione di quanto già affermato a San Francisco il 26 giugno 1945 e approvato dall’Assemblea federale il 5 ottobre 2001, ossia oltre 50 anni dopo. Evidentemente la lezione della guerra era stata drammaticamente efficace. L’infinito numero dei morti, una intera generazione di giovani di tutto il mondo, e il dolore e la sofferenza di quanti erano rimasti e dovevano prendersi cura di chi tornava ferito, nel corpo, spesso mutilato, e nell’anima, e al tempo stesso avevano la responsabilità di intere città da ricostruire, di infrastrutture essenziali da ripristinare. Per tutti era chiaro che una guerra di aggressione è qualcosa di intrinsecamente immorale.
Ma nello stesso tempo era altrettanto chiaro che nel tragico caso in cui essa si fosse scatenata, i responsabili di uno Stato aggredito avevano il diritto e il dovere di organizzare la difesa anche ricorrendo alla forza delle armi. Certamente venivano posti alcuni confini ben precisi e l’uso della forza, per essere lecito, deve rispondere ad alcune rigorose condizioni: “che il danno causato dall’aggressore alla nazione o alla comunità delle nazioni sia durevole, grave e certo; che tutti gli altri mezzi per porvi fine si siano rivelati impraticabili o inefficaci; che ci siano fondate condizioni di successo; che il ricorso alle armi non provochi mali e disordini più gravi del male da eliminare. Nella valutazione di questa condizione ha un grandissimo peso la potenza dei moderni mezzi di distruzione. Questi sono gli elementi tradizionali elencati nella dottrina detta della ‘guerra giusta’. La valutazione di tali condizioni di legittimità morale spetta al giudizio prudente di coloro che hanno la responsabilità del bene comune”.
Al punto 1050 poi si afferma che: “Se tale responsabilità giustifica il possesso di mezzi sufficienti per esercitare il diritto alla difesa, resta per gli Stati l’obbligo di fare tutto il possibile per ‘garantire le condizioni della pace non soltanto sul proprio territorio, ma in tutto il mondo’.
E subito dopo, il punto 1051 ricorda che non bisogna dimenticare che “altro è ricorrere alle armi perché i popoli siano legittimamente difesi, altro voler soggiogare altre nazioni. Né la potenza bellica rende legittimo ogni suo impiego militare o politico. Né diventa tutto lecito tra i belligeranti quando la guerra è ormai disgraziatamente scoppiata”.
In teoria quindi alla fine della Seconda guerra mondiale tutto sembrava chiaro; chiarito richiamando principi ben precisi, almeno sul piano teorico, condivisi e sottoscritti, perché rispondenti ad un’etica che affondava le sue radici in valori innegabili, quali la tutela della vita e della libertà, dei singoli e dei popoli. Ciò nonostante, ogni tanto riemergono antiche tesi, come quella di sant’Agostino, che fosse giusta una guerra se la si combatte in difesa del debole e dell’oppresso. San Tommaso d’Aquino, dal canto suo, teorizza che un conflitto sia giustificabile se volto a punire un’ingiustizia molto grave. Secondo il diritto naturale, o più recentemente secondo lo jus gentium, sono giuste solo le guerre difensive perché fondate sul principio dell’autodifesa, intesa come tutela della vita e della libertà degli individui ma anche della proprietà privata. In definitiva sotto il profilo etico una guerra è giustificata solo se è combattuta per difendere un soggetto più debole, per riparare una ingiustizia e per difendere la vita e la libertà, considerati diritti umani fondamentali.
La Dichiarazione Universale dei diritti umani, all’ art. 28, stabilisce infatti che “ogni individuo ha diritto ad un ordine sociale e internazionale nel quale i diritti e le libertà (fondamentali) … possono essere pienamente realizzati”.
Servono quindi tre elementi chiave sotto il profilo etico: una giusta causa, un giusto modo e una legittima autorità. Perché una guerra giusta, se condotta in modo ingiusto, necessariamente diventerà ingiusta. La cosiddetta guerra giusta ha dei forti vincoli nelle ragioni stesse per cui la si combatte, nelle modalità con cui la si combatte e nell’impegno a ristabilire la pace il prima possibile, non appena superato l’ostacolo inizialmente considerato come fattore scatenante delle iniziative belliche e sempre dopo aver fatto di tutto per rimuoverlo per le vie diplomatiche.
Il dovere primario degli Stati, anche sotto il profilo etico, è quello di costruire e preservare la pace; educando al rispetto dei diritti umani; formando il personale militare per azioni volte alla tutela della pace; destinando fondi allo sviluppo della cooperazione internazionale; supportando le attività di cooperazione e solidarietà internazionale, ecc.
Lo scempio che la guerra crea, il caos sociale, l’impoverimento di intere nazioni, tutto ciò ci ricorda che la questione sociale è questione morale, come diceva Paolo VI oltre 60 anni fa nella Populorum progressio, indicando alcune delle aspirazioni chiave degli uomini: “Essere affrancati dalla miseria, garantire in maniera più sicura la propria sussistenza, la salute, una occupazione stabile; una partecipazione più piena alle responsabilità, al di fuori da ogni oppressione, al riparo da situazioni che offendono la loro dignità di uomini; godere di una maggiore istruzione; in una parola, fare, conoscere e avere di più, per essere di più: ecco l’aspirazione degli uomini di oggi, mentre un gran numero d’essi è condannato a vivere in condizioni che rendono illusorio tale legittimo desiderio”.
E d’altra parte fin dalla sua elezione Papa Francesco ha levato la sua voce contro ogni conflitto – dai più noti ai semisconosciuti – in favore di una convivenza pacifica e rispettosa tra i popoli, affidando la sua speranza e la sua preghiera a Dio. Ripensare la guerra nella logica e nella prospettiva della pace è l’unico modo corretto per aiutare gli uomini a rispettare i loro diritti e a realizzare le loro aspirazioni.
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