L’industria automobilistica europea, nei mesi scorsi, è stata al centro di un dibattito acceso, culminato a inizio marzo con l’adozione da parte dell’Europa di un Piano di azione per il settore. Dopo la pubblicazione del piano, il dibattito si è spento. Significa che è stata trovata una soluzione?
Secondo i dati della stessa Commissione europea, nel 2000 si sono prodotte nel mondo 58 milioni di automobili, di cui 18 milioni in Europa, pari al 31% del totale. Nel 2022, la produzione globale è stata di 85 milioni di veicoli, di cui 13 milioni in Europa, pari al 15%.
In un mercato cresciuto del 47%, l’Europa ha subito una contrazione del 28% e perso quasi un terzo della propria produzione. Se non è una débâcle industriale, poco ci manca. A deprimere ulteriormente il quadro il fatto che molti esperti ritengono che la perdita sia ormai strutturale e difficilmente potrà essere recuperata, almeno nel breve o medio termine. Inutile aggiungere che i dazi del 25% introdotti dagli Stati Uniti sul settore dell’automobile appesantiranno ancora di più la situazione per la produzione in Europa.
Colpisce ovviamente che, mentre nel mondo si stava sviluppando questo scenario, le istituzioni europee abbiano imposto alla nostra industria di impegnare imponenti risorse verso un obiettivo, quello della completa elettrificazione del settore entro il 2035, che già dall’inizio molti, pur riconoscendone lo spirito ideale, ritenevano velleitario nella pratica.
Le politiche europee, che certamente hanno contribuito a peggiorarla e accelerarla, non sono state però la causa della crisi, che risiede nella capacità che hanno avuto i produttori asiatici, soprattutto cinesi, di colmare il divario tecnologico e di competenze con l’Europa e gli Stati Uniti. In Cina, nel 2000, si producevano 2 milioni di automobili; nel 2022, 27 milioni.
Inoltre, l’industria dell’auto europea, che ancora gode della supremazia tecnologica sui tradizionali motori a combustione, non ha saputo trasferire tale tradizionale supremazia né nel campo della mobilità elettrica, nonostante gli investimenti, oggi in capo alla Cina, né in quello della guida autonoma, su cui gli Stati Uniti sono più avanzati.
Il Piano d’azione europeo, rispetto a una situazione precedente eccessivamente semplicistica di “auto elettrica a tutti i costi”, prende finalmente atto di una situazione più complessa e, su alcuni aspetti, fa sicuramente passi avanti.
Riconosce, ad esempio, la velleità di alcune imposizioni e rinvia di almeno due anni le sanzioni per quei produttori che non sono ancora riusciti a seguire il progressivo percorso di riduzione delle emissioni. Prevede, inoltre, una serie di iniziative per rilanciare la sperimentazione in Europa di sistemi a guida autonoma, dando rango e dignità anche a questo fondamentale sviluppo tecnologico.
Su altri fronti, però, tenta un rilancio senza affrontare i temi strutturali di fondo. Conferma l’obbligo di poter immettere sul mercato, a partire dal 2035, solo auto a emissioni zero, citando tra le opzioni solo elettricità e idrogeno, senza menzionare i biocombustibili di origine non fossile, che pure potrebbero rappresentare una soluzione concreta per almeno parte del problema. In questo non si pone il problema di come si pensa che l’Europa possa creare in soli 10 anni adeguate infrastrutture di ricarica per auto elettriche o a idrogeno.
Si mettono a disposizione 1,8 miliardi nei prossimi due anni per la creazione di una filiera europea delle batterie elettriche, proprio quando il “campione” europeo del settore, Northvolt, ha dichiarato bancarotta, bruciando cifre anche maggiori. Senza analisi dei motivi per cui si è giunti a tale fallimento, si rischia di disperdere ulteriori importanti risorse.
Si intendono rilanciare incentivi economici per l’acquisto di auto elettriche, non tenendo conto che a oggi il divario di costo tra auto elettriche e auto tradizionali è, per i modelli base più diffusi, tra 5 mila e 10 mila euro a veicolo. Tenuto conto che in Europa si vendono circa 12 milioni di auto all’anno, il livello di incentivi necessario per una politica veramente funzionante dovrebbe aggirarsi nell’intorno o essere superiore ai 60 miliardi di euro all’anno. Una cifra che l’Unione europea semplicemente non ha, e che gli Stati non si possono permettere.
Negli ultimi anni, l’Europa ha spinto con determinazione verso una transizione energetica che, seppur necessaria, ha rischiato di risultare troppo ambiziosa e scollegata dalla realtà industriale e tecnologica del continente.
Il precedente piano si presentava come una visione futuristica, ma priva di un solido ancoraggio di realtà alle effettive capacità produttive del mercato europeo. La transizione verso l’auto elettrica, in particolare, ha evidenziato una serie di problematiche non adeguatamente considerate in fase di pianificazione: dalla mancanza di una filiera domestica per la produzione delle batterie alla dipendenza da materie prime controllate da Paesi terzi, fino alla carenza di infrastrutture adeguate per la ricarica. È difficile pensare che il Piano d’azione europeo risolva definitivamente la situazione.
Probabilmente, nei prossimi anni saranno quindi necessarie ulteriori correzioni e aggiustamenti per garantire un equilibrio tra sostenibilità ambientale, competitività industriale e indipendenza strategica.
Solo un approccio pragmatico e realistico potrà evitare che l’Europa perda il suo ruolo di protagonista nell’industria automobilistica globale, ma soprattutto, anche più fondamentale, che l’Europa perda la propria credibilità nei confronti dei suoi cittadini.
— — — —
Abbiamo bisogno del tuo contributo per continuare a fornirti una informazione di qualità e indipendente.