“A geopolitical Pope”: andò a colpo sicuro Time nell’ottobre del 1978 con il neoeletto Giovanni Paolo II. Karol Wojtyła non era un diplomatico, non aveva vissuto un solo giorno in Curia romana, ma secondo il settimanale statunitense – abituato a scegliere l’Uomo dell’Anno – sembrava essere stato chiaramente “scelto” da una situazione geopolitica in evoluzione.
Come in effetti fu con la caduta dell’URSS, di cui il Pontefice risultò protagonista, il conclave stesso rispecchiò nella Chiesa uno scacchiere che aveva visto l’Europa emergere con una dimensione nuova e forte, al punto da rompere la tradizione di un Pontefice italiano. La Polonia nel 1978 era ancora al di là del Muro e non faceva parte di una CEEA, come molti dei Paesi europei i cui cardinali puntarono su Wojtyła. Tutti erano invece entrati nella UE quando Giovanni Paolo II morì.
Settantacinque anni prima – nel primo conclave del ventesimo secolo – la geopolitica europea aveva giocato un ruolo altrettanto forte ma opposto. Nel 1903 l’Impero asburgico pose il veto sull’elezione del segretario di stato filofrancese, Mariano Rampolla, e impose un suo suddito, il patriarca di Venezia Angelo Sarto. Ma già alla morte di Pio X, nel 1914, la Chiesa mostrò di essere entrata nel nuovo secolo senza inerzie ottocentesche.
La Prima guerra mondiale era iniziata da poche settimane e il Sacro Collegio chiamò al Soglio l’arcivescovo di Bologna, Giacomo Dalla Chiesa: che teneva già “in pectore” il famoso appello del 1917 contro l'”inutile strage”, divenuta nel frattempo spaventosa come mai nella storia. Si ricorda tuttora poco che dietro il grido di dolore pastorale di Benedetto XV non mancava un serie di proposte utili a far cessare il fuoco: non così distanti dai “Quattordici Punti” con cui il presidente statunitense Woodrow Wilson dettò due anni dopo i trattati di pace a un’Europa devastata.
La geopolitica ha dettato il profilo di un Papa anche nel 1939, quando i tamburi della Seconda guerra mondiale già rullavano. Nessuno, in un conclave lampo, mostrò dubbi sul segretario di Stato Eugenio Pacelli: un vero “cittadino vaticano”, ma soprattutto un diplomatico conosciuto in tutte le cancellerie e perfetto conoscitore della trama complessa delle relazioni internazionali. Ed era talmente convinto, il cardinale Pacelli, della nuova dimensione globale della Chiesa, da ritardare l’inizio del conclave per attendere i cardinali che arrivavano per mare dal continente americano.
Papa Pacelli dovrà probabilmente attendere ancora per essere canonizzato: ma pochi – anche fra chi continua ad accusarlo di responsabilità nella Shoah – dubitano che con un Papa meno geopolitico la Chiesa sarebbe sopravvissuta con molte più difficoltà ai sei anni di conflitto planetario.
Non molti invece sono pronti a rammentare che anche il successore – Giovanni XXIII, “Papa buono” per antonomasia – era un diplomatico di professione, formatosi su fronti aspri: i Balcani fra le due guerre, Istanbul “città aperta” e non da ultimo la difficile Francia del 1945, avvelenata da cinque anni di occupazione nazista. E il giovane Angelo Roncalli era stato segretario di Propaganda Fide, la “diplomazia missionaria” della Santa Sede.
I detrattori del Papa del Concilio – massimo evento ecclesiale del secolo scorso – hanno spesso lamentato che, quando fu eletto, non avesse alle spalle un curriculum di studioso: ma non era necessario essere un teologo per intervenire in tempo reale nella crisi di Cuba del 1962. Semmai tutti citano ancora, sessant’anni dopo, l’enciclica Pacem in Terris o la costituzione conciliare che ha affidato alla Chiesa la missione di essere Lumen Gentium.
Quest’ultima fu sottoscritta da Paolo VI, che venne eletto durante il Concilio e nel primo anno di pontificato si recò a Gerusalemme, mentre nel secondo volò all’ONU. Dal Palazzo Apostolico, monsignor Montini aveva partecipato in prima battuta al drammatico day-to-day della guerra mondiale e a un dopoguerra forse più complesso ancora sul piano geopolitico.
In una fase massimamente geopolitica appare difficile che il prossimo conclave si estranei dalle sfide che il nuovo Papa e la Chiesa devono, vogliono affrontare. Papa Francesco – pontefice “anti-geopolitico” per eccellenza – lascia tuttavia una Chiesa rilevante su tutte le linee calde, anche nella sua freddezza verso l’Europa.
Ma dall’America di Donald Trump alla Cina, dal Medio Oriente all’Africa subsahariana, l’agenda della Santa Sede è chiara e – come ha scritto John Allen, il massimo vaticanista statunitense, ha fatto sì che la Chiesa di Francesco “mattered”: abbia contato. Non è certo la meno importante delle sue eredità: anche se il nuovo Pontefice dovrà reggere il timone di Pietro in mari inesplorati come nessuno dei predecessori recenti.
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