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Home » Economia e Finanza » Economia Internazionale » SCENARIO CRISI/ “La strategia di Trump obbliga l’Ue a rottamare le sue regole”

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SCENARIO CRISI/ “La strategia di Trump obbliga l’Ue a rottamare le sue regole”

Le politiche di Trump sembrano avere una logica che costringe l'Europa a cambiamenti importanti, specie sul fronte fiscale

Int. Gustavo Piga
Pubblicato 24 Aprile 2025
Valdis Dombrovskis e Ursula von der Leyen (Ansa)

Valdis Dombrovskis e Ursula von der Leyen (Ansa)

Con il World economic outlook diffuso martedì, il Fondo monetario internazionale, a causa principalmente dell’incertezza generata dai dazi Usa, ha tagliato le stime di crescita di tutti i principali Paesi.

Tuttavia, come evidenzia Gustavo Piga, professore di Economia politica all’Università di Roma Tor Vergata, «un conto è passare dal +2,7% al +1,8% quest’anno e dal +2,1% al +1,7% il prossimo, come accade per gli Stati Uniti, un altro è scendere dal +1% allo 0,8% quest’anno e dal +1,4% al +1,2% il prossimo, come avviene per l’Eurozona».


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La situazione degli Stati Uniti resta, quindi, migliore della nostra?

Non so cosa darei per poter vedere il nostro continente crescere vicino al 2% piuttosto che all’1% come gli Stati Uniti, che su questo lato dell’Atlantico vengono considerati in crisi nonostante crescano il doppio di noi europei.

Piaccia o meno, gli Usa sono quelli che crescono di più tra i Paesi del G7. Mi pare poi che Trump non intenda spostarsi da una stance che viene ritenuta masochista, ma che probabilmente ha delle ragioni di fondo che vanno comprese.


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In effetti, le sue politiche sui dazi vengono criticate e si ritiene abbiano effetti negativi per gli Stati Uniti.

A me sembra di capire che la strategia trumpiana abbia delle fondamenta e che il Presidente abbia due priorità. La prima è la necessità di fare attenzione al proprio elettorato in vista delle elezioni di midterm che si terranno l’anno prossimo, mentre la seconda ha a che fare con le esigenze di sicurezza del Paese.

Cosa sta facendo di specifico Trump in vista del voto del 2026?

Generalmente si ritiene che in vista delle elezioni sia cruciale mantenere un buon tasso di crescita dell’economia, ma c’è una variabile che in questo periodo mi pare sia più importante: per usare un’immagine, non conta tanto la dimensione della torta, cioè la crescita dell’economia, quanto come questa torta viene distribuita.


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Non penso sia un caso che, nonostante la grande crescita dell’economia americana negli ultimi quattro anni, i Democratici che guidavano il Paese abbiano perso le presidenziali del 2024.

Dunque, Trump sarebbe disposto anche a sacrificare parte della crescita purché vi sia una migliore distribuzione del reddito?

Sì, considerando che gli Stati Uniti partono da un trend di crescita ben superiore al 2% (2,8% nel 2024%), c’è la possibilità di perdere qualche punto percentuale di Pil evitando una recessione. Trovo ci sia una logica nelle scelte di Trump e anche nella sua politica relativa ai dazi con quella parte di mondo che non è la Cina.

Ci spieghi meglio.

Tramite un aumento asimmetrico delle tariffe, il Presidente sta cercando di ottenere due risultati, in linea con le priorità di cui sopra. Il primo è un reshoring delle attività manifatturiere di una certa importanza, che riporti reddito ai blue collar che lo hanno votato e renda più sicure alcune catene del valore produttive portandole interamente entro i confini nazionali.

Qual è, invece, il secondo risultato che Trump sta cercando di ottenere?

Evitare una recessione e non mettere a rischio i conti pubblici. Per raggiungere tale risultato ha a disposizione la politica fiscale da alimentare non solo tramite le risorse raccolte attraverso i dazi, ma anche tagliando le spese per la difesa e facendo in modo che siano gli altri Paesi della Nato a compensarle con un aumento dei loro stanziamenti in questo settore. Mi pare anche che in Europa questo messaggio sia stato recepito e ci si stia muovendo nella direzione desiderata da Washington. C’è poi un’altra strategia che Trump sta portando avanti.

A che cosa si riferisce?

Tipicamente, un Paese che impone dazi vede apprezzare la propria valuta. Il che lo può danneggiare sul fronte dell’export, ma anche rendendo più competitive le produzioni estere nonostante le tariffe doganali in vigore. Trump sta cercando, quindi, di ritardare questo rischio, in modo che non si manifesti prima delle elezioni di midterm, attraverso un deprezzamento del dollaro, che in effetti si sta concretizzando.

Come ci sta riuscendo?

Battendo sulla Fed e sul suo Presidente affinché venga adottata una politica monetaria espansiva. Mi aspetto, quindi, tra non molto le dimissioni del Presidente Powell o una sua “resa” sotto la formidabile pressione politica della Casa Bianca, in modo che si concretizzi un taglio dei tassi di interesse che mantenga il cambio del dollaro sui mercati valutari a livelli compatibili con l’obiettivo di reshoring di cui sopra.

C’è, quindi, in gioco l’indipendenza della Banca centrale americana…

Non esiste un Banchiere centrale totalmente indipendente e che non risponda in ultima analisi alla politica: è un’invenzione degli economisti. Alla fine, come diceva Milton Friedman, quando il Presidente vuole qualcosa dal Governatore della Banca centrale prima o poi la ottiene.

Dunque, la politica dei dazi di Trump ha una sua logica e verrà portata avanti ancora?

Leggendo tra le righe del rapporto del Fmi sembrerebbe emergere la necessità di una “normalizzazione” dei rapporti tra Paesi e, conseguentemente, che questa politica trumpiana abbia ragione di sparire. A mio parere è un pensiero che non tiene conto del fatto che la Casa Bianca ha le idee piuttosto chiare e si sta muovendo con una logica coerente di medio periodo.

La quale non esclude la possibilità che si arrivi, per esempio, a un’area di libero scambio tra Usa e Ue come proposto da Musk. Bruxelles dovrà, però, a quel punto decidere cosa fare con la Cina.

In che senso?

I dazi applicati alla Cina hanno un obiettivo diverso dagli altri e hanno a che fare con il confronto tra le due principali potenze globali. Se il mercato americano sarà precluso o ad accesso limitato per i prodotti cinesi è facile immaginare che questi verranno riversati verso altre aree del mondo, in particolare in direzione dell’Ue. E se si vorrà un’area di libero scambio con gli Stati Uniti, bisognerà adottare le loro stesse politiche di chiusura alla Cina.

Una mossa non semplice da attuare.

Sì, ma sarebbe fattibile. Tuttavia, essa non risolverebbe assolutamente i problemi che permangono relativamente al misero tasso di crescita europeo, che potrebbe anche peggiorare se la politica di indebolimento del dollaro perseguita da Trump dovesse avere successo: a quel punto la capacità di esportare dei Paesi dell’Eurozona diverrebbe un’arma spuntata.

Cosa occorrerebbe fare allora in Europa?

Spingere sulla domanda interna come la Germania, unilateralmente, ha deciso di fare mediante una politica fiscale che potrebbe avere ricadute positive anche per gli altri Paesi come Francia e Italia. Ricadute che, tuttavia, non saranno sufficienti.

Meloni e Macron dovrebbero porre la questione di scegliere cosa fare della politica fiscale europea, dato che il principale supporter dell’austerità ha deciso che quest’ultima può essere messa in soffitta come il freno al debito.

Il commissario per l’Economia Valdis Dombrovskis pochi giorni fa ha detto che dal momento che non c’è una recessione nell’Ue non verrà attivata la clausola generale di salvaguardia che sospende l’applicazione del Patto di stabilità…

Posizioni come quelle di Dombrosvkis sono assolutamente incompatibili con il nuovo contesto politico-economico. Bisognerebbe rendersi conto che la scelta tedesca va rafforzata con una politica fiscale espansiva di tutti gli Stati membri per poter evitare l’aumento dei populismi e dell’instabilità complessiva del nostro continente.

Occorre prendere atto che il Patto di stabilità e crescita è stato riformato prima dell’inizio del secondo mandato di Trump, che nel frattempo il mondo è cambiato e che le regole vanno conseguentemente cambiate.

In che modo andrebbero cambiate?

Come ho già spiegato in altre occasioni, ritengo si debba consentire a ogni Paese membro di portare il deficit sopra il 3% del Pil per finanziare investimenti pubblici, mettendo allo stesso tempo in campo una seria spending review che punti a migliorare la qualità della spesa e a evitare sprechi. Questo è tanto più urgente in Italia.

Perché?

Un grafico nel primo capitolo del World economic outlook mostra come l’Italia, nel periodo tra il 2022 e il 2024, abbia di fatto chiuso i rubinetti della spesa pubblica con un avanzo primario cumulato aggiustato per il ciclo intorno ai cinque punti percentuali di Pil: è vero che di mezzo c’è stata la grana relativa all’impatto del Superbonus sui conti pubblici, ma nessun altro Paese è arrivato a una tale restrizione fiscale.

Ed è tempo che la politica fiscale cambi, per fare in modo che ci siano più investimenti non solo per la difesa, ma anche per ospedali, scuole e altri servizi pubblici.

(Lorenzo Torrisi)

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Tags: Donald TrumpGiorgia MeloniEmmanuel Macron

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