Sono trascorse più di due settimane dall’annuncio di Trump sui dazi reciproci, cui è seguita la sospensione di 90 giorni, salvo che con la Cina con cui sembra essere in corso uno scontro non semplice da gestire per Washington, vista l’esenzione temporanea dai super-dazi del 145% per alcuni componenti elettroniche cruciali per smartphone e computer. Tra l’altro sembra che la Casa Bianca sia pronta a offrire riduzioni sui dazi a quei Paesi che si impegneranno a limitare i loro rapporti con Pechino.
E in questo quadro già di suo complesso resta da capire se Ue e Usa riusciranno a trovare un accordo dopo che il Presidente americano ha respinto l’offerta di dazi zero su auto e beni industriali presentata da Bruxelles. Abbiamo chiesto un commento a Mario Deaglio, professore emerito di economia internazionale all’Università di Torino.
Che idea si sta facendo di quel che è accaduto nelle ultime due settimane e continua ad accadere quasi quotidianamente riguardo la vicenda dei dazi?
Mi sembra predominare la confusione, generata, da un lato, da una macchina amministrativa americana forse ancora poco rodata, dall’altro, dalla mancanza di alcune conoscenze. Un tempo, mediante la programmazione economica e le tavole delle interdipendenze settoriali, non ci si sarebbe accorti solo in un secondo momento che gli alti dazi imposti nel giro di pochi giorni alla Cina avrebbero causato problemi ad alcuni prodotti elettronici americani, dovendo così ricorrere in fretta e furia a un’esenzione temporanea. Questa confusione sta facendo, tra l’altro, allontanare Wall Street e la Casa Bianca, quando fino a poche settimane fa si pensava che la nuova Amministrazione avrebbe favorito i mercati finanziari.
In questa confusione sfugge forse quale sia l’obiettivo delle politiche della nuova Amministrazione.
Da una parte, vorrebbe fare in modo di riportare alcune produzioni negli Stati Uniti e di attrarne anche di straniere, come del resto voleva fare Biden con il varo dell’Inflation reduction act. Non so, tuttavia, se a Washington possano ottenere questo risultato in tempi brevi come forse pensano. È vero, infatti, che negli Usa c’è meno burocrazia e per avviare una produzione ci vuole meno tempo, ma non è detto che questo basti. C’è poi un importante problema che Trump vorrebbe risolvere.
Quale?
Quello relativo all’elevato e crescente debito pubblico. In Italia se n’è parlato pochissimo, ma anche il Financial Times ha scritto riguardo il cosiddetto accordo di Mar-a-Lago, in base al quale la soluzione individuata per risolvere questo problema sarebbe quella di trasformare gli attuali titoli del Tesoro americano, detenuti in larga parte da Paesi stranieri, in nuove obbligazioni a lunghissima scadenza, per esempio a 100 anni, e bassi rendimenti. Di fatto, quindi, gli Usa dovrebbero far accettare agli altri Paesi questa trasformazione del debito in loro possesso, magari in cambio di un trattamento differenziato sui dazi. Ma questa non sarebbe l’unica cosa da far digerire agli Stati stranieri.
Cos’altro dovrebbero accettare?
Una svalutazione del dollaro. In questo senso esiste il precedente del 1985: l’Accordo del Plaza, dal nome del celebre hotel di New York. Lì si riunirono i ministri economici e i banchieri centrali di Usa, Germania, Giappone, Regno Unito e Francia accordandosi su una politica di svalutazione controllata del dollaro, innescata da vendite graduali e programmate di riserve ufficiali della valuta americana. Questo portò a una svalutazione che rese nuovamente competitive le merci americane. Oggi, però, sembra difficile riuscire a realizzare qualcosa del genere.
Perché?
In parte per la presenza della Cina, che è un forte competitor, soprattutto tecnologico, degli Stati Uniti. E poi non bisogna dimenticare che quarant’anni fa c’erano ancora l’Unione Sovietica e la Ddr, quindi esisteva un legame molto più forte tra gli Stati Uniti e i Paesi europei sotto l’ombrello della Nato.
A proposito di Cina, pensa che Washington abbia in qualche modo sottovalutato la reazione di Pechino ai super-dazi che ha introdotto nei suoi confronti?
Sì, anche perché, come spiegavo prima, è come se si fosse accorta solo dopo del livello di dipendenza di alcuni settori da componenti provenienti dalla Cina. Il gigante asiatico ha i suoi problemi, tra cui il fatto che giovani ben istruiti e preparati nelle università non trovano poi occupazione se non come operai. Tuttavia, anche mediante un buon utilizzo delle terre rare, ha raggiunto livelli tecnologici in certi casi più alti di quelli americani.
Sembra che gli Stati Uniti potrebbero offrire dazi ridotti a chi contribuirà a isolare la Cina. Cosa ne pensa?
Non so se sia un’offerta rivolta in particolare all’Ue, che ha sì rapporti con la Cina, ma non poi così straordinari. Penso che la logica di una mossa di questo tipo potrebbe essere quella di cercare di creare nuovi ostacoli alla nascita di una valuta dei Brics concorrente del dollaro per le transazioni internazionali.
Dopo il no americano all’offerta Ue di dazi zero su auto e beni industriali, ritiene possibile un accordo tra Washington e Bruxelles sulle tariffe?
È davvero molto difficile da dire, anche perché al momento c’è molta confusione da entrambe le parti. La von der Leyen è venuta fuori con delle idee abbastanza chiare per la prima volta solo negli ultimi giorni, anche a proposito della possibilità di sfruttare l’incontro tra Meloni e Trump per sondare il terreno. Penso ci vorrà molto tempo per vedere se sarà possibile arrivare un accordo tra Usa e Ue.
(Lorenzo Torrisi)
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