Sappiamo che nella lontana antichità ci sono state invasioni barbariche di varie etnie, i Traci, i Cimbri, i Celti, i Teutoni. Anche nei tempi più moderni abbiamo assistito ad altre invasioni sempre aggressive, come quella dei “Timbri” e delle “Norme”, portata con violenza dalla burocrazia e dalla pubblica amministrazione, che diventa ossessiva, pauperizzante e difficile da domare.
Un’invasione che sembra inarrestabile, anche grazie a una pervasiva cultura soffocante, nemica della creatività. Oltre ai “Timbri”, appunto, ci sono le “Norme”, che si autogenerano all’infinito: noi ne abbiamo oltre 120mila, mentre la Francia e la Germania riescono a convivere con 5mila-6mila norme. Lo stesso dicasi per l’UE, in cui la governance è in mano a una burocrazia ottusa (ma potentissima) che disciplina tutto.
Abbiamo ora infine l’invasione dei “Dazi” commerciali, come sembra verificarsi con la politica di Trump, rivolta a recuperare il tempo perduto e le occasioni perse. Meglio approfondire.
La cosiddetta guerra dei dazi è allo stesso modo una guerra di invasione nella tanto declamata libertà degli scambi promossa dal nuovo – ormai vecchio – Ordine Mondiale. In realtà i dazi non sono una novità: risalgono al Medioevo e sono stati creati per imporre un onere al passaggio di merci da un comune all’altro.
Il dazio in economia è una barriera artificiale ai flussi di beni tra due o più Paesi e, in passato, tra due o più comuni di una stessa nazione (in quest’ultimo caso si parla di dazio interno). Nasce da esigenze di politica economica di un singolo Stato (o gruppo di Stati) e si manifesta in manipolazioni amministrative dei flussi di beni in entrata e in uscita dallo Stato stesso. Per estensione è anche l’insieme delle strutture che ne assicurano il rispetto e l’esecuzione in frontiera, come la dogana.
Dal punto di vista politico, il dazio costituisce uno strumento di protezione di alcuni settori economici nazionali, quando questi non possono competere con la concorrenza estera. L’uso sistematico di questo strumento si chiama protezionismo. Nella maggior parte dei casi il dazio viene riscosso attraverso una dichiarazione doganale, pagata dall’importatore. Le entrate monetarie date dai dazi costituiscono per lo Stato un introito fiscale.
In Italia il tema dei dazi e delle sanzioni è stato di particolare rilievo durante il ventennio fascista che, di fronte all’ostilità di altri Paesi europei, avviò un percorso di autonomia produttiva. Resta famosa la guerra del grano, la cui produzione venne avviata con una sorta di autarchia per rendere il Paese indipendente nel fabbisogno alimentare.
Sebbene preconizzata dall’ideologia dirigista fino dal 1925, la guerra dei dazi prese concretamente avvio solo dal 1937. La caratteristica italiana fu la misura dell’intervento statale, che fu molto esteso ed evitò il collasso del sistema finanziario, portando gran parte dell’economia in mano allo Stato.
Tra le misure prese, si innalzarono i dazi sui beni importati. Il protezionismo commerciale fu poi fortemente accentuato quando l’Italia venne soggetta a sanzioni internazionali a seguito dell’attacco all’Etiopia nel 1935 e alla deposizione del Negus Hailé Selassié, erede della dinastia salomonide che secondo la tradizione avrebbe origine dal re Salomone e dalla regina di Saba. Le sanzioni rimasero in vigore per otto mesi. Il successivo intervento nella guerra civile spagnola e l’alleanza con la Germania provocarono un ulteriore isolamento politico dell’Italia.
Concretamente, le politiche autarchiche furono sostenute da una serie di provvedimenti per rafforzare il controllo centralizzato degli scambi commerciali con l’estero: nel 1935 fu costituita la Sovrintendenza per gli scambi delle valute, un ufficio dipendente direttamente dal capo del Governo. L’autarchia produsse un aumento dei costi e una diminuzione della produttività, a causa della qualità inferiore di prodotti sostitutivi nazionali rispetto a quelli precedentemente importati.
Alla fine della Seconda guerra mondiale si avviò il libero scambio tra i Paesi vincitori, che creò la grande rinascita del primo dopoguerra; negli anni Novanta si istituì l’Organizzazione mondiale del commercio (World Trade Organization, WTO). Vi aderiscono 164 Paesi e altri 26 Paesi stanno negoziando l’adesione, comprendendo così oltre il 97% del commercio mondiale di beni e servizi. L’OMC ha assunto, nell’ambito della regolamentazione del commercio mondiale, il ruolo precedentemente detenuto dal GATT; ora con il piano di Trump saltano gli accordi mondiali in favore di un sistema regolatorio funzionale agli Usa, al fine di ricomporre le sue attività manifatturiere.
Il problema degli Usa è quello di avere finanziarizzato l’economia reale e la manifattura mediante una sistematica delocalizzazione nei Paesi a più basso costo di mano d’opera, specie quelli in Oriente. Questa situazione ha generato un sistematico deficit della bilancia commerciale, che nel novembre dello scorso anno ha sfiorato i 100 miliardi di dollari di deficit.
Hanno contribuito il volume del debito pubblico ormai alle stelle, pari a 37.000 mld di dollari, e la bassa propensione al risparmio del Paese; fattori che, insieme considerati, evidenziano non solo un problema economico, ma un vero e proprio collasso socioculturale del Paese. Il piano Trump si propone una politica aggressiva di dazi per provare a ridurre il deficit commerciale degli Stati Uniti, in parte dovuto al riacquisto delle merci prodotte in altri Paesi, il 40% delle spese in uscita, e riportare questi settori produttivi – ormai persi – in patria.
Gli Stati Uniti hanno registrato consistenti deficit commerciali dal 1976 a causa delle elevate importazioni di petrolio e beni di consumo. Nel 2022 i maggiori deficit commerciali si registrano con Cina, Messico, Vietnam, Canada, Germania, Giappone e Irlanda, e i maggiori surplus commerciali con Paesi Bassi, Hong Kong, Brasile, Singapore, Australia e Regno Unito. Il Canada è il principale partner commerciale, rappresentando il 15% del totale degli scambi, seguito dal Messico (14%) e dalla Cina (13%).
La guerra dei dazi diventa una sfida commerciale ostile tra Paesi alleati che si vedono costretti ancora una volta ad assorbire le negatività del sistema Usa e del dollaro, come era stato negli anni 70, quando con la fine del Gold exchange standard venne scaricata sui Paesi europei una devastante ondata inflattiva che pose le basi e le condizioni nel nostro Paese del crescente debito pubblico.
La scelta di Trump si basa sul proposito di riportare in patria le attività manifatturiere delocalizzate in altri Paesi da ormai più di trent’anni. Ma nei nuovi siti produttivi si sono nel tempo avviate attività con positivi equilibri economici in cui le spese produttive di avvio si sono via via ripagate mediante volumi di vendita che consentono un abbondante copertura del punto di pareggio.
Questi equilibri tra costi e ricavi richiedono tempi lunghi e condizioni produttive i cui costi possano essere coperti dai crescenti volumi di ricavi; il problema è che quest’azione non è possibile negli Usa, perché economicamente non compatibile con gli equilibri produttivi realizzati altrove. Questa sfida pertanto è destinata ad infrangersi con i fatti reali e con il rischio che si avvii una lotta commerciale che non vedrebbe necessariamente gli Usa vincenti.
Il rialzo dei prezzi, poi, delle materie importate a più alti prezzi rischia di impoverire le fasce deboli dell’America, di ridurre il margine di profitto delle imprese e dunque degli introiti fiscali che possono consentire di ridurre il gravoso debito pubblico.
Gli Usa, dunque, si propongono di riportare in positivo la bilancia commerciale, ma non possono aumentare troppo i dazi verso i Paesi fornitori di beni in cui hanno delocalizzato le produzioni, perché non possono nel breve e medio tempo sostituirle a condizioni economiche convenienti, salvo peggiorare gli equilibri economici e sociali con significativi cambiamenti di prezzo; pertanto sono condannati ad importare quelle produzioni delocalizzate. Allo stesso tempo devono esportare, ma un aumento dei dazi sui loro beni esportati può diventare estremamente dannoso. È così che arriviamo ai “controdazi” applicati sui beni Usa.
Questa dinamica, che dimostra come gli Usa considerino ancora gli alleati più alla stregua di clienti da sottomettere, apre lo spazio per una possibile negoziazione, come quella della UE verso gli Stati Uniti. Se solo si riuscisse a ridurre le sanzioni verso la Russia sul petrolio ed il gas non saremmo costretti a comprare il gas liquido Usa a prezzi che sono il doppio di quello russo, ma le esportazioni americane ne risentirebbero in modo grave. Questo dimostra che quando si iniziano le guerre si crea una posizione di scontro, ma essa va negoziata perché a non farlo si rimane schiacciati.
Finora la posizione dell’Europa è stata di sudditanza, sia nei confronti delle sanzioni, derivanti da una guerra in Ucraina che poteva essere evitata e che sembra avviarsi verso una soluzione simile a quella proposta prima che la guerra incominciasse, sia verso qualsiasi iniziativa Usa indicata.
La guerra dei dazi presuppone una Unione Europea indipendente e soprattutto consapevole dell’assunto di Henry Kissinger, che dichiarava che essere nemici degli Usa è pericoloso, ma essere amici è mortale. Si prepara un percorso ad ostacoli con troppi Paesi in conflitto ed incapaci di capire che l’unità, nella storia, rafforza sempre le alleanze. Come scrive Tucidide ne La guerra del Pelopponeso, le alleanze sono forti se l’unione è condivisa, ma si sgretolano se questa viene a cadere o fatta cadere dal comportamento di coloro – o di colui – che governano l’alleanza.
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