Per il principe von Metternich l’Italia era solo un’espressione geografica. Lo stesso è oggi il cosiddetto “centro” della politica. Un “non luogo”, una terra di nessuno dove si accalcano, uno sopra l’altro, decine di personaggi in cerca di riconferma in Parlamento. Giorgio Gaber si domandava cos’è la destra e cos’è la sinistra: del centro non si preoccupava perché probabilmente conosceva già la risposta. Aveva già capito che definirlo sarebbe stata un’impresa impossibile. Scomparsa la Democrazia cristiana, è scattata la “caccia al centro”. Allora il centro era il luogo del compromesso inteso come sintesi, della moderazione, del ceto medio e del governo. Oggi il centro è ridotto a una formula, un’alchimia politica o forse un amuleto. Ogni volta che si va a votare, infatti, si sente ripetere come un ritornello taumaturgico che “si vince al centro”. Mai come oggi, il centro attira tanti politici che, paradossalmente, sono entrati in Parlamento (a Roma o a Bruxelles) con partiti di destra o di sinistra, ma ora magicamente si concentrano – appunto – al centro.
Giovanni Toti, Antonio Tajani, Luigi Di Maio, Carlo Calenda, Silvio Berlusconi, Matteo Renzi, Clemente Mastella, forse perfino Giuseppe Conte. Frange uscite da altri partiti o rimasugli di scissioni che si contendono i voti centristi, peraltro piuttosto scarsi secondo i sondaggi più aggiornati. Politici che si siedono allo stesso tavolo, si scambiano larghi sorrisi, si fanno reciprocamente coraggio ma che in realtà non si sopportano perché sanno bene che “mors tua vita mea”. Il presunto centro, oggi in Italia, non è un luogo di elaborazione, un fulcro propulsivo che sforna idee e progetti per il futuro dell’Italia e per restituire agli italiani il benessere perduto.
Le incertezze sulla legge elettorale che regolerà il voto dell’anno prossimo incoraggiano le ambizioni dei centristi. Il numero dei seggi è stato falcidiato dalla riforma costituzionale voluta dai 5 Stelle. Il sistema uninominale delle coalizioni appare ridicolo davanti al comportamento dei partiti in questa legislatura: tre governi, tre maggioranze diverse e coalizioni presentatesi compatte il 4 marzo 2018 saltate per aria dopo appena qualche settimana nel trionfo del “liberi tutti”. Il tam-tam nei corridoi della politica dice che si va verso un proporzionale con sbarramento. Se dev’essere “liberi tutti”, meglio che ognuno si presenti agli elettori con le proprie idee e i propri candidati, e chiuse le urne si vede. Dopo cinque anni in cui la politica è stata di fatto esautorata dalla raffica di emergenze, i partiti vogliono contarsi. E il proporzionale con sbarramento potrebbe rivelarsi una ghigliottina per i piccoli partiti, guarda caso quasi tutti calamitati da questo fantomatico centro, che per sopravvivere devono abbassare la soglia oppure trovare un modo di mettersi assieme. Lo chiamano centro, ma è un nome per non sparire.
L’agognata “governabilità” garantita dalla DC affondata da Mani pulite è semmai il problema – e il rimpianto – di chi intende modificare la legge elettorale, sulla quale sono ancora in corso contatti informali tra i principali partiti. Secondo le rilevazioni di Alessandra Ghisleri, con una soglia di sbarramento al 4% solo 6 formazioni politiche entrerebbero nel nuovo parlamento in formato ridotto. Ieri il relatore pentastellato del Ddl di riforma della legge elettorale, Giuseppe Brescia, ha detto no a un proporzionale con premio di maggioranza ipotizzato dal Pd. Dunque tutto è in movimento, per ora mancano punti fermi in grado di legittimare scenari credibili, e i tatticismi regnano incontrastati. Letta e Meloni possono volere il proporzionale, ma senza il sì di Salvini si rimane al Rosatellum. E il M5s – questo sembra essere il messaggio del presidente della commissione Affari costituzionali – vuole essere della partita, nonostante la crisi interna che rischia di assottigliare ulteriormente i numeri della pattuglia parlamentare di Giuseppe Conte. Merito di Draghi.
A proposito: il proporzionale è il terreno di coltura ideale di un “Draghi bis”. Elezioni, confronto post elettorale, impasse, frantumazione delle coalizioni, soluzione calata dall’alto del Colle. Con un nome e un cognome: quello dell’ex presidente della Bce. Governabilità sì, ma a che prezzo? Il paese si governa dal centro, si diceva una volta.
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