L’Africa è sempre più un riferimento energetico, non solo per l’Italia. Ma gli africani cominciano a mettere i paletti: per esempio sulle terre rare
La Cina la fa da padrone, ma l’Italia con l’ENI è tra i principali attori nel campo dell’energia in Africa. Un continente che è il nostro polmone energetico dai tempi di Mattei e che sta diventando sempre più un punto di riferimento per l’Occidente anche per le rinnovabili e le terre rare. Ma con il quale, spiega Marco Di Liddo, direttore del CeSI, Centro Studi Internazionali, per aprirsi delle possibilità occorre un approccio diverso da quello coloniale al quale sono improntate ancora soprattutto le iniziative cinesi. Non per niente la stessa Unione africana sta sviluppando progetti per fare in modo che le terre rare non vengano sfruttate un’altra volta dalla presenza straniera.
Saipem ha incamerato contratti per 135 milioni in Africa, tra Libia, Costa d’Avorio e Ghana, nelle perforazioni offshore. Quanto è importante il continente per l’approvvigionamento energetico italiano?
Tutta l’Africa è centrale nella strategia italiana dai tempi di Enrico Mattei. Sono decine i Paesi in cui ENI è presente e diverse decine i progetti lanciati e gestiti dall’azienda, in tutte le aree del continente, da nord a sud, da est a ovest. I riflettori sono accesi sulla Libia, perché è storicamente più esposta e geograficamente più vicina alle nostre coste, ma l’azienda è presente nel Golfo di Guinea, in Nigeria, in Ghana, in Costa d’Avorio, in Camerun, in Angola, in Mozambico. L’Africa è già il nostro polmone energetico e lo è da decenni.
Si tratta di una presenza in espansione?
I progetti di sviluppo non si contano, uno di questi è l’attività dell’estrazione del gas offshore nel nord del Mozambico, con soluzioni innovative come le stazioni fluttuanti, che permettono di caricare le navi senza che queste debbano andare in porto.
Chi sono i nostri concorrenti principali in questo mercato?
Le grandi major, le famose sette sorelle, che sono ancora tali. Tra i competitor ci sono British Petroleum, Shell, le società americane, francesi. Una competizione nella quale l’Italia se la gioca. Lo spettro di intervento va dalla ricerca geologica all’estrazione, alla commercializzazione. Se c’è bisogno si parla anche di raffinazione del prodotto. ENI ha firmato anche accordi con i governi locali perché una parte degli introiti tornino sul territorio con progetti per sanità, infrastrutture, educazione.
Tra le grandi potenze internazionali, quali sono quelle che hanno puntato più gli occhi sull’Africa anche dal punto di vista energetico?
L’assegnazione dei giacimenti petroliferi viene realizzata con delle aste. Si fa una ricerca geologica per capire quanto petrolio c’è e dove si trova. Poi il bacino petrolifero viene diviso in settori, cui viene conferito un nome e un numero, che vengono venduti. Gli attori interessati sono tanti: francesi, inglesi e cinesi sono molto presenti nel mercato africano, ma ci sono anche indiani, indonesiani. Sono un po’ meno presenti i russi, che hanno già tanta ricchezza energetica da gestire nel territorio nazionale.
E gli americani?
Ci sono, ma meno di altri. Da quando hanno scoperto tecnologie non convenzionali, come il fracking, per l’estrazione di shale oil e shale gas, sono diventati esportatori: hanno meno bisogno dell’Africa, dove tradizionalmente non sono mai stati fortissimi.
Chi sono i Paesi più forti in Africa?
Una classifica rigida non si può fare, ma sul podio metterei sicuramente i cinesi e i francesi, perché la Total ha tanti contratti, poi ci sono gli italiani.
La UE, ma non solo lei, ha stretto accordi in Africa anche per le rinnovabili. Segno che il continente può diventare sempre di più uno dei polmoni energetici del mondo?
La prossimità geografica rende l’Africa il nostro polmone energetico naturale, non solo il Nord, ma anche il Golfo di Guinea. Ma non possiamo basarci solo sull’estrazione dei combustibili fossili, dobbiamo andare anche sulle rinnovabili. Ci sono due canali da seguire: il primo è la promozione della produzione rinnovabile in Africa per coprire l’esigenza del mercato interno, che però deve essere messo in condizione di sfruttare l’energia. Si può realizzare un parco eolico o un parco solare, ma se manca la rete di distribuzione, la luce nelle case o negli ospedali non arriva.
Se invece l’energia la si esporta?
Se si parla di rinnovabili per il consumo italiano, il futuro sono i parchi eolici nel Nordafrica, però l’energia deve essere trasferita via cavo e c’è sempre il punto di domanda dell’accumulazione. Quando si parla di energia pulita tutti si focalizzano su come produrla, ma bisogna chiedersi come stoccarla. C’è bisogno di gigantesche reti di accumulazione, vuole dire batterie, investimenti nel litio e nelle tecnologie che in futuro puntano a sostituirlo negli accumulatori. In Cina, in Giappone già si parla delle batterie al sodio.
Tutta questa attenzione per l’Africa dal punto di vista energetico è anche occasione per un nuovo colonialismo?
Oggi le politiche neocoloniali le fa soprattutto la Cina, perché utilizza uno schema che si basa sulla trappola del debito, sull’uso politico dei prestiti, con contratti economici che obbligano gli Stati a cedere quote della propria sovranità mineraria ed energetica. Dall’altra parte gli africani non sono quelli di ieri, è più difficile imporre certe condizioni. Sono negoziatori duri e non si vogliono far mettere nel sacco.
in che modo l’Africa sarà il continente del futuro?
C’è una montagna da scalare quanto alla governance, alle infrastrutture, alla stabilità: non immaginiamo un’Africa che tra dieci anni diventa il paradiso in terra. Ci vorranno decenni. Il futuro più immediato è dell’Asia. Siamo all’alba di una nuova era segnata dal cambio delle politiche sulle materie prime critiche, in cui i Paesi africani vogliono emanciparsi dal modello estrattivista, che prevede l’estrazione e la vendita. Ora si vuole lavorare anche sulla raffinazione. Inoltre, c’è lo sviluppo del libero mercato africano con l’Africa Free Trade Agreement che punta proprio a sviluppare il commercio intracontinentale.
Ci sono progetti, come quello dell’Unione africana, per difendere il patrimonio delle terre rare, lasciandolo in capo agli africani. Cosa sta cambiando?
C’è una maggiore accortezza da parte africana nel concedere le risorse. Sta cambiando la policy dei governi africani sulle materie prime critiche, un aspetto che interessa anche all’Italia e all’Europa: o creiamo una supply chain stabile ed economica sicura oppure la nostra tecnologia la dovremmo fare con il legname e con le pietre.
Le terre rare sono per il 90% in mano alla Cina: ci sono i presupposti per un’alternativa?
Lo spazio c’è, ma bisogna crearselo con gli investimenti, per ottenere, da soli o insieme ad altri partner, almeno una quota di quello che serve. Anche aprendo nuove miniere.
(Paolo Rossetti)
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