L’intervento di Giorgia Meloni all’assemblea di Confindustria di ieri ha dedicato ampio spazio alla questione energetica. Era inevitabile, perché i prezzi dell’elettricità in Italia sono ancora più del doppio di quelli antecedenti la crisi ucraina e perché nel nostro Paese i prezzi sono i più alti d’Europa.
Dall’inizio dell’anno, in media, per avere un riferimento, il prezzo dell’elettricità in Italia è stato del 25% più alto di quello tedesco, del 67% di quello francese e più del doppio di quello spagnolo. Questi livelli continuano da anni e non se ne vede la fine, perché i sistemi che producono queste differenze rimangono gli stessi. È comprensibile che gli industriali segnalino questo problema, perché lo svantaggio competitivo è evidente, tanto più in un sistema rigido come quello europeo e perché altri governi, quello tedesco su tutti, possono permettersi sussidi che il nostro fatica a replicare.
Dice giustamente il presidente del Consiglio che spendere “soldi pubblici non può essere la soluzione” e questo probabilmente include gli incentivi alle rinnovabili, che negli ultimi vent’anni hanno spesso sorpassato il costo di 10 miliardi di euro all’anno. Oggi, a differenza degli ultimi decenni, l’Italia è chiamata ad alzare la propria spesa per la difesa con ordini di grandezza che si misurano i punti di Pil e in decine di miliardi di euro. Nel frattempo si nota una crescente attenzione degli investitori per i debiti e i deficit pubblici e questa è una condizione che non è destinata a cambiare.
Queste due novità obbligano a un uso oculato delle risorse. In questo scenario si propongono, come è successo anche ieri, soluzioni che non potranno accontentare gli imprenditori. La prima è puntare sui contratti a lungo termine; ma gli indici che potrebbero darci un’indicazione sui prezzi, su tutti quello dell’elettricità a un anno, sono sempre rimasti sopra 100 euro per megawattora e quindi su livelli sensibilmente più alti di quelli del 2019 e della competizione europea.
Si può tentare con il disaccoppiamento del prezzo dell’elettricità da quello delle rinnovabili, ma in Europa non l’ha ancora provato nessuno e le incognite sono tante per un sistema delicato e complesso come quello elettrico.
Infine si può puntare sul nucleare, e questa è sicuramente l’unica direzione possibile per un sistema che vuole rinunciare agli idrocarburi, ma, ci ha avvisato l’ad di Leonardo settimana scorsa, non si può sperare in reattori funzionanti prima del 2040. Le rinnovabili possono essere una componente del mix, ma i costi delle batterie o dello stoccaggio, tramite idrogeno per esempio, sono proibitivi per un sistema industriale evoluto come quello italiano.
Non ci sono soluzioni semplici. Il sistema italiano rimarrà a lungo ancorato al prezzo del gas. Affermare questa evidenza significa affrontare un’opposizione ideologica e aprire polemiche in Europa perché altri sistemi, Francia e Spagna su tutti, non hanno bisogno di tutto il gas che occorre all’Italia. Significa scommettere su forniture e partnership di lungo periodo con i produttori per calmierare i prezzi e rilanciare la produzione nazionale.
I prezzi dell’elettricità doppi rispetto a quelli del 2019 hanno creato sacche di profitti che come minimo mettono nelle condizioni di fare investimenti. Purtroppo, però, due decenni di incentivi generosi alle rinnovabili e alla transizione hanno creato dipendenza da sussidi pubblici e l’assuefazione a rendimenti garantiti dallo Stato a prescindere da qualsiasi contesto economico e finanziario. Anche in questo caso il Governo deve essere attento a scegliere che incentivi dare e a non assecondare comportamenti opportunistici.
Il problema energetico italiano non si risolve con “tecnicismi” perché sul mercato c’è la speculazione o perché si può formare il prezzo in modo più “razionale”. C’è un ventaglio di interventi, dalle forniture gas, passando per il rilancio dell’idroelettrico, alle rinnovabili dove conviene, che possono portare risultati tangibili in qualche anno. Oltre c’è il nucleare, prima solo i sussidi finanziati dal pubblico o dal privato.
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