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Home » Esteri » Medio Oriente » SCENARIO GAZA/ Cosa c’è dietro i no di Trump alle bombe di Netanyahu su Iran e Siria

  • Medio Oriente
  • Usa
  • Esteri

SCENARIO GAZA/ Cosa c’è dietro i no di Trump alle bombe di Netanyahu su Iran e Siria

Trump non vuole che Israele attacchi l’Iran e si scontri con i turchi in Siria, ma lascia fare a Gaza. Netanyahu la renderà invivibile per i palestinesi

Int. Sherif El Sebaie
Pubblicato 19 Aprile 2025
Nel campo rifugiati palestinesi di Al Maghazi (Ansa)

Nel campo rifugiati palestinesi di Al Maghazi (Ansa)

A Netanyahu sono arrivati due no secchi: niente attacco ai siti nucleari iraniani e niente scontro con Erdogan in Siria, oggetto delle mire anche della Turchia. L’altolà di Trump al premier israeliano, tuttavia, spiega Sherif El Sebaie, opinionista egiziano esperto di geopolitica del Medio Oriente, non impedisce all’IDF di fare quello che vuole a Gaza.


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Anzi, il governo di Tel Aviv non si oppone alle indicazioni USA su Iran e Siria, proprio perché tutto sommato gli sta bene continuare la sua guerra nella Striscia. L’obiettivo è di distruggere l’area in modo tale da rendere quasi obbligata l’espulsione dei palestinesi dal territorio. Trump, per ora, ha scelto una posizione attendista: lascia fare.


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Ci sono molte cose che devono ancora maturare prima di immaginare un futuro per Gaza, a partire dalla definizione di chi si occuperà della sua gestione nel dopoguerra. In questo senso, anche il piano presentato dai Paesi arabi, secondo gli americani, lascerebbe ancora a desiderare. Ma, proseguendo così, la deportazione dei palestinesi diventa sempre più probabile.

Trump ha stoppato un attacco di Israele all’Iran e anche in Siria ha bloccato le intenzioni bellicose di Netanyahu contro Erdogan. Israele è costretto a cambiare la sua politica?

Che Netanyahu avesse a che fare con un presidente molto assertivo, che non conviene contraddire, anche solo da un punto di vista psicologico, era evidente già al momento in cui è stata attivata la tregua, subito prima che Trump venisse insediato. Anzi, non è sfuggito a nessuno che al cessate il fuoco si è arrivati proprio perché il presidente americano Trump ha insistito che ci fosse una tregua ancora prima del suo arrivo.


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Come ha reagito però a questa novità il premier israeliano?

Se l’input che è arrivato da Trump è di non creare ulteriori problemi con l’Iran o in Siria, Netanyahu non può far altro che abbozzare, anche perché come contropartita ha avuto mano libera su Gaza. La tregua è saltata, può agire come vuole nella Striscia e probabilmente anche in Cisgiordania, per realizzare quello che la destra israeliana ha sempre sognato: sbarazzarsi dei palestinesi.

Ma non è che poi Trump lo metterà spalle al muro, costringendolo a concedere qualcosa per riuscire a concludere affari con l’Arabia Saudita, che chiede un futuro in Palestina per i palestinesi?

Questo resta sicuramente un capitolo aperto e, fin quando Trump non sentirà le proposte dei Paesi arabi su come risolvere la questione, probabilmente terrà in considerazione ogni possibilità. D’altronde, questa è la cifra della sua politica estera in generale, quella di fare accordi e negoziare, anche ricorrendo a metodi un po’ spicci.

La posizione americana su Gaza è cambiata?

Stanno cercando di sondare fin dove si possono spingere con i Paesi arabi in merito alla disponibilità di trasferire i palestinesi. Finora la risposta è stata abbastanza ferma: il re di Giordania è stato molto chiaro, il presidente egiziano Al-Sisi ancora di più, visto che non si è recato neanche a Washington. Secondo me, gli USA stanno aspettando di vedere se possono riprovare a rimettere sul tavolo le ipotesi strampalate che prevedono la deportazione di massa dei palestinesi, oppure se dovranno scendere a compromessi e trovare una soluzione alternativa.

Il piano sottoscritto dai Paesi del Golfo e dagli altri Paesi mediorientali al Cairo non viene già più preso in considerazione?

Trump si aspetta da ogni negoziazione di ottenere il più possibile. Probabilmente, per il momento, questo piano non è sufficiente né per lui né per Israele. Per questo, credo che di tregua ormai non se ne parli: l’IDF andrà avanti a bombardare e la risoluzione della questione verrà rimandata. Anche perché rimane da capire chi si assumerà la responsabilità di Gaza nel dopoguerra.

Il ministro della Difesa Katz dice che gli israeliani rimarranno a Gaza, ma non si capisce ancora che tipo di presenza garantiranno. Quella di Israele sarebbe una permanenza rischiosa?

Hamas è ben lungi dall’essere sradicata. Anzi, si parla addirittura di migliaia di nuove reclute che sono andate a rimpolpare le fila dell’organizzazione, sostituendo i miliziani che sono stati uccisi. Sicuramente è più debole anche da un punto di vista regionale, perché non può più contare su Hezbollah e sull’Iran, ma non possiamo dire che Hamas non ci sia più.

Hamas in questi giorni ha rifiutato nuove proposte di tregua, tornando sostanzialmente alla posizione di sempre: la liberazione di tutti gli ostaggi è possibile, ma deve finire la guerra. Sono disposti a far subire a Gaza altri bombardamenti?

A questo punto sono disposti a far subire qualsiasi cosa, perché dopo ciò che è già successo la situazione non può peggiorare. A Gaza è rimasto in piedi ben poco e quello che c’è è pericolante: dal punto di vista delle infrastrutture non c’è più nulla. Certo, dal punto di vista delle vittime umane, il bilancio può essere destinato a salire. Hamas, però, sul piano politico, ha ottenuto già due risultati: il rilascio di migliaia di prigionieri palestinesi in cambio degli ostaggi e il danno di immagine per Israele a livello internazionale. Sono due aspetti non secondari. Anche Macron ha appena detto che sta pensando di riconoscere lo Stato palestinese: tutti elementi che possono convincere Hamas che il sacrificio vale la pena.

Haaretz riporta i dubbi dei piloti dell’IDF e i dilemmi morali che devono affrontare quando vengono chiamati ancora a bombardare a Gaza. Un segnale che qualcosa si sta incrinando nella volontà israeliana di proseguire con la guerra?

In qualsiasi guerra, il danno psicologico, anche per la parte più forte, è sempre dietro l’angolo. Lo si è visto anche in Israele, dove molti si sono anche rifiutati di andare al fronte. Più che questi danni, però, credo che conti come vengono visti oggi gli israeliani in giro per il mondo. Mai come ora si sono sentiti additati e colpevolizzati per la politica del loro Paese.

Israele non farà guerra all’Iran e non si scontrerà con la Turchia in Siria perché lo hanno detto gli USA. Ma a Gaza cosa farà? Continuerà a bombardare per distruggerla e per rendere sempre più impossibile ai palestinesi di restare a casa loro?

Credo che sia un modo anche per convincere ancora di più Trump che non c’è altra possibilità se non quella di deportare i palestinesi. D’altronde, il presidente americano ha ben presente questa soluzione. Israele sta creando i presupposti perché si realizzi il piano dell’estrema destra.

(Paolo Rossetti)

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Tags: Donald TrumpBenjamin Netanyahu

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