Sesto round (teatralmente macabro) della prima fase dell’accordo di tregua tra Israele e Hamas: ieri mattina, a Khan Younis, nel sud della Striscia, dopo 498 giorni di incubo, sono stati liberati dai terroristi filoiraniani Aleksandr Sasha Trufanov, cittadino russo-israeliano di 29 anni, Saguy Dekel-Hen, israelo-americano 36enne, ed il 46enne Yair Horen. Erano stati catturati e trasformati in ostaggi il 7 ottobre 2023 nel kibbutz di Nir Oz.
Lo “scambio” è stato, come i precedenti, totalmente sperequato: hanno lasciato le carceri israeliane 369 detenuti, 36 dei quali condannati all’ergastolo (gli altri erano stati arrestati a Gaza dopo il massacro), il numero più elevato di palestinesi liberati in un colpo solo nella prima fase dell’accordo di 42 giorni, che ancora prevede il rilascio di altri 14 dei 33 ostaggi israeliani, stabiliti per la prima fase, almeno 9 dei quali si presume essere ancora vivi. Restano nelle mani di Hamas altri 70 ostaggi dei 251 rapiti, considerando i cadaveri di almeno 35 persone, la cui morte è ormai confermata.
La liberazione di ieri ha visto in scena l’ormai rodata liturgia del terrore: gli ostaggi israeliani sono stati portati dai terroristi di Hamas, armati e a volto coperto, su un palco allestito tra manifesti e immagini evocative del massacro del 7 ottobre, dove sono stati costretti a sfilare tra grida, spari in aria e slogan.
Il premier Benjamin Netanyahu sostiene di continuare a “lavorare in pieno coordinamento con gli Stati Uniti per garantire la liberazione del maggior numero possibile di ostaggi, il più rapidamente possibile”. Sfruttata questa opportunità, tutte le opzioni saranno sul tavolo: il mantenimento del cessate il fuoco o la ripresa dei combattimenti. Una ripresa evocata anche dal neo ri-presidente Usa Donald Trump, che ha scandito “tutti gli ostaggi a casa o sarà l’inferno”.
Difficile immaginare l’impatto di una simile minaccia su chi vive già di suo in un inferno quotidiano, una Striscia di macerie e 47mila morti. Tant’è che tra le scritte esposte ieri sul palco a Khan Younis è comparsa anche la frase “non c’è emigrazione se non verso Gerusalemme”, in risposta all’idea trumpiana di deportare i palestinesi altrove per creare una Gaza-riviera.
Inutile scandalizzarsi o chiedersi cosa fuma mai il tycoon: la sua politica estera, quasi un fanta-Risiko, sembra il risultato di volubilità, improvvisazione, megalomania. Ma in realtà è difficile immaginare che tutti i consiglieri della White House non riescano ad arginare il boss. Più plausibile che tutte le provocazioni di Trump siano, appunto, provocazioni, dall’acquisizione della Groenlandia alla rinomina del Golfo del Messico in Golfo d’America, alla trasformazione del Canada nel 51esimo Stato Unito, alla riconquista di Panama, fino appunto alle deportazioni di Gaza per creare un’improbabile Cannes del Mediterraneo del sud.
Sono iperboli al pari dei piani di pace che vedrebbero l’Ucraina passare di fatto nelle mani di Putin e Zelensky rifondere gli Usa per i miliardi ricevuti in armi e aiuti. Per tutte queste ideone dal mondo si alzano cori inorriditi, ma intanto il sasso è lanciato e ogni discussione da qui in avanti non potrà non tenerne conto. Il senso è puntare all’impossibile per realizzare al più presto risultati comunque più alti.
Così, ad esempio, i Paesi arabi hanno finalmente iniziato a discutere seriamente su un futuro sostenibile per Gaza. Reuters sostiene che l’Arabia Saudita stia guidando i lavori per arrivare a una bozza sul dopoguerra che sarà discussa in un incontro a Riad con Egitto, Giordania ed Emirati Arabi Uniti, prima del vertice arabo programmato per il 27 febbraio. Si parla di un fondo di ricostruzione guidato dai Paesi del Golfo e un accordo per mettere da parte Hamas. L’ipotesi del Cairo prevede la formazione di un comitato nazionale palestinese al governo di Gaza senza il coinvolgimento di Hamas, la partecipazione internazionale alla ricostruzione senza espellere i palestinesi e un orientamento verso una soluzione a due Stati.
Il protagonismo dell’Arabia non è una sorpresa: nel 2020, proprio verso la fine del suo primo mandato presidenziale, Donald Trump fu sponsor degli Accordi di Abramo tra Israele, Emirati Arabi Uniti e Bahrein (in seguito anche Sudan e Marocco), tesi a riconoscere la sovranità israeliana e l’annessione del 30% della Cisgiordania. Se oggi i nuovi lavori varati dall’Arabia dovessero anche rilanciare quegli accordi, finiti nel frattempo in stand-by, le provocazioni odierne di Trump avrebbero avuto un senso compiuto.
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