Al tavolo c’erano Paesi occidentali come l’Italia, ma anche molti Paesi arabi, l’Onu, l’Unione Europea, il presidente dell’Autorità nazionale palestinese Abu Mazen, convocati al Cairo dal presidente egiziano Al Sisi per analizzare la situazione del conflitto tra Hamas e Israele e chiedere sostanzialmente una de-escalation nella guerra per creare poi i presupposti per la convivenza pacifica di due Stati.
L’indicazione, insomma, è di seguire la via diplomatica. Tutto però, spiega Ugo Tramballi, editorialista de Il Sole 24 ore e consigliere scientifico dell’Ispi, dipende da cosa decideranno di fare gli israeliani a Gaza, dall’azione di terra che dovrebbe rappresentare la risposta all’attacco di Hamas del 7 ottobre. Pressati dagli Usa e non solo da loro, gli israeliani potrebbero dare il via a un piano che sia una via di mezzo tra un’invasione brutale della Striscia con obiettivo l’annientamento di Hamas ma anche della città stessa, e una posizione attendista che li porterebbe a rinunciare a un’azione dalle conseguenze drammatiche per la popolazione.
A decidere sarà un governo in cui ora i militari contano di più. Proprio questi ultimi sono i più moderati e pragmatici, per questo potrebbero essere loro a suggerire una soluzione meno traumatica di quella che era stata ipotizzata inizialmente.
Intanto dalla frontiera di Rafah sono passati i primi aiuti umanitari, mentre sul fronte del Libano si alza la tensione con Hezbollah.
Finalmente sono stati liberati due ostaggi, due donne americane: che cosa significa questo gesto? Hamas comincia a cedere o è solo un modo per cercare di ritardare l’azione di terra israeliana?
Posto che gli israeliani siano intenzionati davvero a condurre l’operazione di terra, a invadere Gaza, la liberazione dei due ostaggi è un modo di abbassare la tensione. Non sappiamo quanto Hamas sia in difficoltà. Dal punto di vista militare adesso è silente, magari è la Jihad islamica che opera, anche se non molto: è possibile che il razzo lanciato sull’ospedale sia un errore loro. Hamas, invece, è molto cauta, i suoi uomini più importanti sono tutti nascosti. Gli israeliani ne hanno già presi alcuni: i corpi speciali sono già entrati a Gaza per missioni veloci, dicono di avere ucciso il capo dell’operazione militare del 7 ottobre. I capi politici, tuttavia, sono tutti a Doha, in Qatar. Il rilascio degli ostaggi è anche un segnale di Hamas per ottenere un cessate il fuoco, che a loro fa comodo. Tenendo conto che al Cairo c’è stato un vertice con i Paesi arabi, alcuni Paesi occidentali, le Nazioni Unite, l’Unione Europea, è un segnale alla comunità internazionale a favore della via diplomatica. L’incontro è un po’ la prosecuzione del vertice che, se non ci fosse stato l’incidente all’ospedale, Joe Biden avrebbe tenuto in occasione della sua visita in Israele.
Israele come ha reagito alla liberazione?
Gli israeliani non guardano molto a questo. Il grande dibattito nel Paese riguarda se e come mettere in atto un’operazione militare nella Striscia: da un lato gli israeliani lo chiedono, dall’altro c’è la comunità internazionale che suggerisce a Israele di non farla o almeno di limitarla, senza occupare Gaza.
Il ministro della Difesa israeliano Yoav Gallant annunciando l’imminente azione di terra a Gaza ha però dichiarato anche che non c’è l’intenzione di occupare l’area: cosa vogliono fare davvero?
Quando gli israeliani dicono che vogliono sradicare Hamas da Gaza dobbiamo ricordarci che Hamas non è l’esercito egiziano o siriano, ma una milizia radicata nella Striscia. Come è successo anche nelle altre guerre si possono uccidere tutti i capi militari e tutti i capi politici e distruggere i silos di razzi, ma dopo tre giorni vengono nominati nuovi capi e si costruiscono nuovi razzi. Solo con una presenza fisica di mesi e mesi possono sperare di neutralizzarli. Probabilmente intorno all’operazione si sta creando quella che si definisce fog of war, l’opacità della guerra, quanto tutti dicono cose e poi ne fanno altre. Per Israele non è facile agire. Probabilmente faranno delle operazioni molto potenti e mirate e credo che i militari, che sono molto più pragmatici dei politici, stiano cercando un modo per non perdere la faccia, come succederebbe non facendo l’operazione terrestre, senza realizzarla però nel modo in cui tutti temono.
Nelle decisioni del governo israeliano quanto pesano le pressioni che vengono esercitate dagli Usa? Gli americani contano più di prima?
Gli americani hanno sempre contato: Biden è venuto in zona di guerra, ha incontrato i parenti degli ostaggi e le parole che ha detto a porte chiuse a Netanyahu pesano. Il governo di Israele oggi, come succede quasi sempre quando c’è una guerra, è il governo dei militari. Gantz, che è appena entrato nel governo, è stato capo di stato maggiore delle forze armate ed è stato ministro della Difesa. Il governo si è trasferito da Gerusalemme a Tel Aviv, dove c’è un solo ministero, quello, appunto, della Difesa. Mentre in Argentina, Cile o nei Paesi africani c’è da preoccuparsi se i militari fanno i golpe, di fatto qui è avvenuto una specie di golpe bianco. Per fortuna, perché i militari sulla trattativa con i palestinesi, sull’accordo relativo al nucleare iraniano, sono sempre stati molto più pragmatici e moderati dei governi di Netanyahu.
Gallant ha anche detto che alla fine dell’operazione di terra Gaza non costituirà più un pericolo, ma la prudenza che chiedono gli americani come si concilia con la necessità di evitare che la Striscia anche in futuro continui a costituire un rischio per la sicurezza di Israele?
Tutti sanno che con Hamas non finisce qui e che non è a favore di una trattativa di pace come i palestinesi in Cisgiordania, l’Autorità palestinese di Ramallah. Però tutti sanno che Hamas non la puoi sradicare. L’obiettivo della diplomazia internazionale è quello di riuscire a riportare l’Anp a Gaza: far saltare il banco di Hamas e riportare al potere l’Anp, che è più moderata, e da Oslo in poi ha sempre fatto una scelta politica, non militare, nel confronto con Israele. La soluzione politica, tuttavia, è complicata tanto quella militare. Hamas inoltre è profondamente radicata a Gaza e ha l’appoggio dell’Iran e di Hezbollah.
Insomma, per gli israeliani sarà difficile uscire da questo cul de sac?
Sì. Da un lato se attaccano restano isolati dalla diplomazia mondiale, dall’altro se non lo fanno diventa una sconfitta.
Cosa potremmo aspettarci, allora, un’operazione di terra al ribasso che tenga conto di tutt’e due le esigenze?
Non possono non fare nulla, cercheranno una via di mezzo che permetta loro di dire che hanno ucciso qualche esponente di Hamas, che hanno distrutto i loro bunker e i silos per poi dichiarare il cessate il fuoco. La comunità internazionale ne sarebbe felice e proverebbe ad aprire un percorso diplomatico. Questa è l’unica soluzione. Comunque, sono passate due settimane dall’azione di Hamas e non c’è stata un’offensiva terrestre. Inoltre, era un decennio che nessuno parlava più di uno Stato palestinese, adesso invece ne parlano tutti.
Quali condizioni si devono verificare perché si concretizzi questa possibilità?
Potrebbero esserci delle elezioni e magari Netanyahu viene mandato via a favore di un governo di centro, un governo dei militari. E si riapre un fronte diplomatico.
Missili che arrivano dallo Yemen, droni sulle basi Usa, attacchi dal Libano da parte di Hezbollah: c’è qualcuno che soffia veramente sul fuoco per l’allargamento del conflitto?
Tutto dipende da quello che succede a Gaza. Non conviene neanche agli israeliani aggravare la situazione, perché poi metterebbero in difficoltà tutti quei Paesi arabi che hanno fatto la pace con loro: l’Egitto, la Giordania, alcuni Paesi del Golfo. In realtà nessuno vuole un allargamento del conflitto: per gli iraniani può essere molto pericoloso perché Israele può arrivare con i bombardieri, Hezbollah ha dietro un Paese, il Libano, che ha una gravissima crisi economica e politica. Quelle che abbiamo visto sono provocazioni che servono da ammonimento a Israele. Il problema è che con tutta questa tensione può sempre capitare un incidente un po’ più grave di quello dell’ospedale che faccia precipitare la situazione come l’attentato di Sarajevo nel 1914.
Qual è il segnale che arriva dal vertice del Cairo?
I temi sul tavolo sono il diritto dei palestinesi ad avere uno Stato, il cessate il fuoco, il corridoio umanitario: l’importanza di questo vertice è che sia avvenuto, esprimendo la volontà di riportare sul piano diplomatico quello che fino ad ora è sul piano del conflitto armato.
(Paolo Rossetti)
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