La decisione di Hamas di sospendere la liberazione degli ostaggi è una risposta a Trump e alla sua volontà di acquistare Gaza, facendone una località turistica e trasferendo i palestinesi fuori dai confini della Striscia, ma è anche un segnale di debolezza. Se insisterà, dovrà prendersi la responsabilità del ritorno alle armi, rimanendo ancora più isolata. Le minacce del presidente americano (confermate da Netanyahu) sono lì a ricordarlo con i suoi soliti toni: “Se non verranno liberati gli ostaggi sarà l’inferno”. La tregua a Gaza è in pericolo, spiega Bernard Khoury, direttore italo-libanese del Centro studi sul mondo arabo Cosmo, ma il piano di Trump, più che una vera proposta operativa, serve a far venire allo scoperto i Paesi arabi, che in realtà non si sono mai presi veramente a cuore la causa della Palestina. Anche Israele sa che è difficile occupare la Striscia, per questo punterà a creare delle zone cuscinetto ai confini del Paese, per garantirsi una maggiore sicurezza.
Qual è il vero motivo per cui Hamas ha deciso di sospendere la liberazione degli ostaggi, mettendo a rischio la tregua?
È una risposta non tanto agli israeliani quanto a Trump, per fargli capire che, se continua a fare pressioni sui palestinesi con le sue proposte, l’accordo può saltare, rimettendo nelle mani dell’amministrazione americana una patata bollente che non voleva più gestire, tanto da spingere a un’intesa sulla tregua. C’è però un altro punto: questa presa di posizione non fa altro che confermare la debolezza, la sconfitta politica e militare di Hamas, che l’organizzazione palestinese cerca di nascondere con queste uscite. Lo vediamo anche dalla propaganda che accompagna ogni liberazione degli ostaggi.
Ma ci sono contestazioni specifiche alla condotta israeliana relative alla violazione degli accordi per il cessate il fuoco?
Le violazioni sarebbero due: la prima, di aver ostacolato il ritorno verso il nord della Striscia degli sfollati; la seconda, di aver intralciato l’ingresso degli aiuti umanitari. Due punti sui quali è difficile stabilire dove inizi la violazione della tregua: gli aiuti umanitari stanno entrando, se non sono sufficienti è una questione di interpretazione. Per questo tendo a legare la decisione di Hamas a un’operazione propagandistica piuttosto che connessa a quello che accade sul terreno.
Tutto questo a cosa può portare?
Se sabato non verranno liberati gli ostaggi, significa che in maniera arbitraria Hamas ha deciso che a Gaza si riprendano le operazioni militari. Ma dovranno spiegarlo all’opinione pubblica interna, che non sta dimostrando loro tutto questo supporto, soprattutto in un momento in cui è aperto il dibattito su chi andrà a gestire amministrativamente Gaza nel prossimo futuro.
Il segretario di Stato USA, Marco Rubio, ha detto che Hamas non governerà mai Gaza.
Queste pressioni Hamas le sta sentendo e in qualche modo deve cercare di rispondere, ma lo fa in modo da confermare la debolezza della sua posizione e comunque potrebbero portare a conseguenze molto più gravi.
Israele, però, almeno la destra nazionalista e lo stesso Netanyahu, non sembra così dispiaciuto di avere l’occasione per riprendere a combattere. È così?
Anche le autorità israeliane devono rispondere alla propria opinione pubblica interna. È vero che, con la liberazione graduale degli ostaggi, uno degli obiettivi che si è sempre prefissato il governo Netanyahu è stato raggiunto. È altrettanto ovvio che le frange più oltranziste della politica israeliana vorrebbero riprendere le operazioni per fare in modo che nella Striscia non ci sia più nulla di associabile ad Hamas.
A tornare alla guerra ci stanno pensando seriamente? La risposta di Israele sarà con le armi?
Il ministro della Difesa israeliano, Israel Katz, ha ordinato l’innalzamento dello stato di allerta e il rafforzamento della presenza militare nelle aree adiacenti a Gaza. Allo stesso tempo il comando meridionale delle IDF, che ha la responsabilità di quell’area, ha posticipato i congedi del personale operativo, mentre Netanyahu ha cominciato ad avviare consultazioni con i vertici della sicurezza nazionale. Gli israeliani stanno rispondendo in maniera politica a Hamas, lanciando un messaggio molto chiaro: se sabato non verranno liberati gli ostaggi, siamo pronti a tornare sul campo di battaglia.
Ma è questo che il governo vuole?
Nonostante le dichiarazioni delle frange più oltranziste, credo di no. Allo stesso tempo, tuttavia, tutte queste manovre, le dichiarazioni, lo stato di allerta sono un chiaro segnale anche ad Hamas per far vedere che l’IDF è pronta a riprendere le operazioni.
Trump, intanto, ha mandato messaggi chiari a Egitto e Giordania, avvisandoli che, se non accoglieranno i palestinesi, non riceveranno più finanziamenti dagli USA. Quanto influirebbe una mossa del genere sugli equilibri del Medio Oriente?
La verità è che Trump, volente o nolente, sta mostrando agli arabi e alla comunità internazionale che nessun Paese arabo vuole accogliere i palestinesi. Anzi, che per questi Paesi la questione palestinese ha valore zero. In Giordania, per ragioni storiche, è vista come un elemento di criticità. E l’Egitto è sulla stessa linea.
In realtà la questione palestinese non interessa più di tanto?
Il punto su cui riflettere è la responsabilità dei Paesi arabi. L’ultima cosa che vorrebbero fare gli Stati della regione, soprattutto quelli arabo-sunniti del Golfo, che stanno costruendo o hanno costruito delle economie stabili e sono vicini a concludere gli Accordi di Abramo con Israele, è portarsi in casa i palestinesi.
Il piano di Trump di acquistare Gaza, farne la Riviera del Medio Oriente, ma senza i palestinesi dentro, ha un futuro?
Le dichiarazioni di Trump le vedo più come un modo per mettere in difficoltà i Paesi arabi, per sbattergli in faccia la realtà: parlano della causa palestinese come di una loro causa, ma poi, quando c’è da aiutarli, non lo fanno.
I palestinesi, però, hanno una terra e vorrebbero tenersela. Perché non viene loro riconosciuto questo diritto?
Tenersi la propria terra non è solo un diritto, ma comporta con sé anche dei doveri. I palestinesi devono capire che farlo con un’organizzazione come Hamas è fuori dalla storia.
Quindi i palestinesi devono accreditarsi come una controparte affidabile?
Certo, ma non lo possono fare da soli, devono essere aiutati dai Paesi che fino ad oggi hanno maggiormente sponsorizzato la causa palestinese. Ecco perché Trump, in modo provocatorio, dice agli arabi che devono essere i primi loro a risolvere la questione.
Ma Trump allora al suo piano crede o no?
È per testare la reazione dei Paesi arabi, per farli uscire allo scoperto. D’altra parte, non è certo una soluzione che si può attuare da oggi a domani.
Sabato che cosa succederà? Hamas sa che non può tirare troppo la corda e quindi libererà gli ostaggi?
Hamas sa che, se tira troppo la corda, ricominciano le operazioni militari e dovrebbe assumersi la responsabilità delle conseguenze, con il rischio di perdere il sostegno dei Paesi arabi, come Egitto e Qatar, che hanno lavorato incessantemente per raggiungere la tregua. Se la scelta sarà questa, si isolerà completamente: sarebbe come scavarsi la fossa.
In realtà qual è il vero obiettivo di Israele?
L’obiettivo di Israele è garantire la sicurezza dei suoi cittadini da oggi ai prossimi decenni e, per farlo, deve creare delle buffer zone o comunque deve essere certo di non avere minacce ai confini. Una strategia che sta perseguendo anche nel nord del Libano e che seguirà nella Striscia. Sa benissimo che l’occupazione vera e propria di Gaza non è sostenibile.
(Paolo Rossetti)
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