Ieri i rendimenti delle obbligazioni statali delle principali economie europee, inclusa quella italiana, sono scesi insieme ai mercati azionari. L’inflazione, che da quasi due anni occupa le prime pagine, sta per cedere il passo alla disinflazione sotto i colpi di un rallentamento economico e dei rialzi dei tassi che non sono ancora finiti. Il settore manifatturiero è già da qualche mese in questo scenario, mentre quello dei servizi non ancora, ma, complessivamente, si moltiplicano le evidenze della fine momentanea dell’inflazione che abbiamo conosciuto a partire dall’autunno 2021. Lo si evince, tra i tanti segnali disponibili, dal crollo delle attese dei prezzi di vendite delle imprese misurato, per esempio, dalla direzione generale degli Affari economici e finanziari della Commissione europea.
Quasi due anni fa l’inflazione è esplosa improvvisamente senza un’apparente spiegazione; all’inizio era “transitoria” e attribuita allo shock imposto alle economie dai lockdown e poi dalle riaperture dimenticando il dettaglio degli stimoli fiscali e monetari messi in atto da Governi e banche centrali. Nella nuova fase che probabilmente si sta per aprire, quella della disinflazione, il rischio è dimenticare e trascurare alcuni fattori che spingeranno l’inflazione molto oltre l’orizzonte di breve periodo.
Le catene di fornitura globale, che avevano il perno in Cina, stanno rapidamente cambiando struttura e si ricollocano in Paesi che hanno costi di produzione più alti. Qualsiasi cosa si pensi di questo cambiamento il risultato è un aumento dei costi per i consumatori. Per l’Europa questo mutamento “imposto” dai cambiamenti geopolitici è più evidente perché il Vecchio continente ha perso l’aggancio con il suo storico fornitore di materie prime a basso costo: la Russia. Non ci sono alternative altrettanto economiche anche ipotizzando che l’Europa abbandoni il sogno della rivoluzione energetica.
La rivoluzione energetica, tanto più se imposta a tappe forzate, è inflattiva perché comporta la ricostruzione da zero dell’intero settore energetico. Le “nuove” tecnologie hanno bisogno di investimenti colossali in nuove miniere che producono i metalli necessari alla rivoluzione. Uno dei principali produttori europei di turbine eoliche, Siemens energy, ieri è crollata in borsa di oltre il 30%. Dopo le difficoltà dovute all’esplosione dei costi dell’acciaio e di altri componenti necessari alla costruzione delle turbine, l’ultima cattiva notizia riguarda i consumi delle componenti più rapidi delle attese e che impongono costose riparazioni. La transizione non è neutrale per i prezzi, né nel breve periodo, mentre ci si scontra con i problemi di un settore relativamente giovane, né nel lungo perché si deve ricostruire da capo quello che ci sarebbe già con le “vecchie” tecnologie.
La denatalità degli ultimi decenni oggi presenta il conto con la progressiva uscita dal mercato del lavoro, per anzianità, dei baby boomers. L’offerta di lavoro si riduce e le imprese devono competere per assicurarsi i lavoratori rimasti alzando i salari. Anche questo è un fattore che non ha soluzione nel breve periodo.
L’esplosione dei debiti pubblici e privati degli ultimi decenni oggi mette le banche centrali in una posizione scomoda. Negli ultimi mesi abbiamo assistito, pensiamo alle banche regionali americane, a segnali di stress finanziario scaturiti dagli aumenti dei tassi di interesse. I tentativi delle banche centrali di contenere l’inflazione hanno come contraltare l’aumento degli stress finanziari. La tentazione è quella di posticipare i problemi aprendo di nuovo a politiche monetarie espansive. È una soluzione indolore solo all’apparenza, perché l’inflazione può essere la peggiore e più iniqua delle tasse. L’inflazione alimentare a doppia cifra degli ultimi diciotto mesi ha avuto conseguenze molto diverse a seconda delle classi di reddito.
Il comune denominatore è la superficialità con cui si sono presentante le sfide al grande pubblico confuso tra quello che succede nel breve periodo e i costi di lungo termine. Pensiamo agli abbattimenti dei capi di bestiame in Olanda per “ridurre le emissioni” o ai divieti della pesca a strascico al largo delle coste italiane che non possono non avere un effetto sul costo del cibo. I costi energetici imposti dalla transizione con l’entrata in scena di fonti non programmabili è un altro esempio. Il grande assente, in ogni caso, è il buon senso.
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