Ieri Meloni, sfruttando la sua terzietà rispetto ai “volenterosi”, è riuscita a mettere intorno a un tavolo JD Vance e Ursula von der Leyen
Il più bel complimento che Giorgia Meloni potesse immaginare di ricevere oggi le è venuto da JD Vance, vicepresidente degli Stati Uniti, che l’ha definita costruttrice di ponti fra le due sponde dell’Atlantico. Il vertice improvvisato a tre con Ursula von der Leyen a margine della messa di inizio pontificato di papa Leone XIV si è rivelato un notevole successo d’immagine, ribaltando in un clic la narrazione di una premier isolata sul piano internazionale, come plasticamente dimostrato (secondo le opposizioni) dalla “foto di Tirana”, tutti intorno al telefonino di Macron che tenta di connettersi con Trump insieme a Zelensky, Starmer, Merz e il polacco Tusk.
Il tavolino tondo di Palazzo Chigi dimostra che la realtà è ben più complessa, e che Meloni ha un ampio margine di azione. Anzitutto i “volenterosi” hanno escluso che oggi si discuta dell’invio di truppe europee in Ucraina. Ma in questo modo i leaders di Regno Unito, Francia e Germania – i più “volenterosi” di tutti – si ritrovano appaiati alla posizione del governo italiano, che ha sempre affermato di non voler mandare truppe.
Dunque i quattro leaders europei seduti a quel tavolo non erano sincronizzati con le mosse della Casa Bianca, con l’attenuante generica della velocità con cui l’imprevedibile Trump cambia idea e carte in tavola. È quello che sta avvenendo, visto che alla Casa Bianca cresce la convinzione che Putin in realtà non voglia affatto la pace. Considerazione che riavvicina Washington e Kiev.
Ma se Trump si trova quasi costretto a puntellare Zelensky per non darla vinta al Cremlino, la posizione prudente di Meloni risulta più in linea, e può essere giocata sull’altro tavolo di discussione all’interno dell’Occidente, quello dei dazi.
Su questo la premier italiana ha pesato le parole e ricordato come la competenza in materia commerciale sia esclusivamente della Commissione europea, e che l’Italia è più che soddisfatta di favorire un dialogo che serve all’Occidente. Un nuovo inizio, ha spiegato.
Politicamente si tratta di un incasso non da poco, di cui von der Leyen non può che esserle riconoscente, visto che lei non aveva trovato canali di comunicazione. È, infatti, il primo contatto diretto di alto livello fra amministrazione USA e burocrazia europea, che arriva quando sono trascorsi in modo infruttuoso 40 dei 90 giorni dallo stop ai super dazi deciso da Trump, mentre con Cina e Gran Bretagna gli accordi sono stati raggiunti.
Meloni ha sfruttato la sua terzietà rispetto ai cosiddetti “volenterosi” per compiere quella missione di dialogo che si era auto-assegnata alla vigilia di Pasqua quando venne ricevuta da Trump nello Studio Ovale. Certo, i problemi in tema di tariffe sono consistenti e nessuno li vuole nascondere. Ma da qualche parte il dialogo doveva pur cominciare, ed è cominciato proprio da Palazzo Chigi, anche perché insieme a Vance c’era anche il segretario di Stato Marco Rubio.
Proprio Rubio a San Pietro ha parlato con Zelensky, e l’abbraccio tutt’altro che formale fra il presidente ucraino e la premier fanno capire come la posizione italiana sia tutt’altro che debole. Sabato è stato il neo-cancelliere tedesco Merz a dare atto a Meloni dell’importanza del nostro Paese nella vicenda ucraina, e della necessità di un formato diplomatico che la coinvolga.
L’unico a non capirlo pare Macron: nonostante la debolezza in patria continua a invocare per la Francia la guida della politica estera e di difesa dell’Unione, infischiandotene di Meloni. Difficile pensare che sia estraneo all’esclusione di Meloni dalla call richiesta anche da Merz e Starmer a Trump prima dell’attesa telefonata fra Casa Bianca e Cremlino prevista per il pomeriggio di oggi, lunedì. Una specie di prosecuzione della “foto di Tirana” che tuttavia è servita a poco, perché sabato Meloni ha avuto un colloqui telefonico con lo stesso Trump.
Ecco, Meloni e Macron non si sono mai piaciuti, e si sono reciprocamente tagliati la strada più volte in questi due anni e mezzo di governo di centrodestra in Italia. Il braccio di ferro danneggia entrambi, ma sembra destinato a continuare. La premier non è disposta a rassegnarsi a un ruolo subalterno e sente di essere assai più salda in sella rispetto al presidente francese, anche se può contare su un numero più ridotto di alleati nell’Unione. Da evitare quindi il rischio è di alzare troppo il tono dello scontro. Ma la sponda con Trump è l’elemento con cui Meloni si augura di tenere a bada l’Eliseo e tutti gli altri.
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