I “due forni” sono un format politico coniato da Giulio Andreotti nell’Italia degli anni ’60. Dopo l’apertura della maggioranza di governo al Psi, l’ala moderata della Dc – che aveva già fra i suoi leader l’enfant prodige allevato da Alcide De Gasperi – prese subito a rammentare la permanenza di un “secondo forno” per impastare il Governo del Paese: quello rappresentato a verso destra dal Pli, storico partner nel dopoguerra centrista.
La formula fu messa in pratica dallo stesso Andreotti nel suo primo esecutivo, che nel 1972 pose fine alla stagione del primo centrosinistra. Ma ebbe fortuna anche oltre, meritandosi una citazione perfino nell’Enciclopedia Treccani.
È verosimile che Donald Trump non conosca né Andreotti, né la sua alchemica politica. I “due forni” appaiono invece sempre più l’approccio della Casa Bianca verso l’Ue: a maggior ragione dopo la singolare due giorni andata in scena fra Washington e Roma, con la Premier Giorgia Meloni in spola fra il presidente americano e il vicepresidente JD Vance.
L’Italia è senza molti dubbi il “secondo forno” acceso dagli Usa dopo che il primo – quello dell’Ue – è al momento spento e sbarrato. Lo è – quello di Bruxelles – in chiave difensiva, per non cuocere un pane di guerra daziaria, certamente amaro e indigesto.
La Presidente della Commissione europea, Ursula von der Leyen, sembra ora impaziente di riaccendere il suo forno – quello dei Ventisette – per mettere in cottura un “great deal” che Trump ha detto proprio alla Meloni di essere certo al 100% di poter servire sulla tavola del Nuovo Occidente. Ma è una decisione che non è nel potere di “Ursula”: che peraltro sembra avere le idee chiare sugli ingredienti cruciali della ciambella. Questa, secondo gli Usa, dovrebbe essere molto dolce per il Big Tech d’Oltre Atlantico e molto densa di armi europee per il riequilibrio della Nato.
Il Fornaio Capo, in Europa, resta un leader Ue che non è ancora formalmente tale: è il Cancelliere tedesco in pectore >Friederich Merz. Che, salvo colpi di scena, entrerà in carica a Berlino il 6 maggio. Il suo manuale programmatico è però giànero su bianco, sottoscritto da Cdu-Csu e Spd, i due partner di una coalizione non più grandissima e per tante ragioni non del tutto coesa. Ma la pressione degli estremismi robusti sia a destra (Afd) che a sinistra (Linke) e un quasi appoggio esterno dei Verdi dovrebbe garantire a Merz un esordio determinato: anche nel Consiglio Ue, nei fatti da mesi acefalo della Germania.
L’Europa non appare d’altronde la priorità di Merz: il quale – più che tatticamente – si è preoccupato finora di delineare una strategia molto nazionalistica. La cancellazione dei vincoli costituzionali all’indebitamento e il preannuncio di investimenti decennali per mille miliardi in riarmo e infrastrutture è avvenuto anzi a prescindere dal Patto di stabilità Ue e dal progetto ReArm presentato dalla Commissione.
Questo non vuol dire necessariamente che Merz rinuncerà a rivestire i panni di “Cancelliere d’Europa”, per 16 anni indossati da Angela Merkel. Resta invece incerto attraverso quale “forno” vorrà ingaggiare la sua gara di cucina geopolitica con gli Usa di Trump.
Non è detto che rifiuti – almeno inizialmente – di usare il “forno italiano”. Se la visita “europea” di Trump a Roma avrà luogo veramente nell’arco di settimane, sulla carta presenta parecchie attrattive: l’invito sarà di Meloni, per questo alla fine non impegnativo per Merz se decidesse di accoglierlo. E in fondo a Roma si va preparando qualcosa di non molto diverso dai summit dei Volenterosi convocati a Londra e Parigi da Emmanuel Macron e Keir Starmer. Che a loro volta hanno tentato per primi di aprire un “forno”: parecchio andreottiano nell’includere ed escludere Stati e forze politiche.
La stessa Meloni si sta intanto muovendo sullo scacchiere geopolitico con regole che paiono non troppo diverse da quelle che lo statista democristiano ha scolpito nella Prima Repubblica. Basta osservare come la visita di Vance a Roma – divenuta apparentemente “superflua” – sia stata confermata anche per consentire al Vicepresidente Usa di essere ricevuto in Vaticano dal segretario di Stato, cardinale Pietro Parolin. E di pranzare coi due Vicepremier di Meloni: il leader della Lega Matteo Salvini e quello dei Fi, Antonio Tajani.
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