Ormai da più parti arriva il grido di allarme: siamo iperconnessi, vogliamo fare sempre più cose contemporaneamente per guadagnare più tempo possibile. In realtà, da un lato facciamo più cose ma male e dall’altro coltiviamo sempre di più i meccanismi neuronali che ci permettono di compiere molte operazioni nello stesso tempo e sempre di meno i meccanismi neuronali che ci permettono di concentrarci su un unico obiettivo a lungo termine. Enrico Campo, con questo libro dal sottotitolo L’attenzione e la sua crisi nella società digitale, ci guida a una comprensione più precisa del fenomeno, con l’obiettivo di liberarci dalla dicotomia attenzione-distrazione e soprattutto per sollevarci dal senso di colpa, inevitabile nella riduzione del problema alla sola dimensione individuale. L’autore non vuole negare i dati di fatto che sono stati rilevati e con indagini giornalistiche e con studi scientifici, ma cerca di farci capire la dimensione sociale dell’attenzione, per cui si deve uscire dalla riduzione del problema a un rapporto causale: tecnologie digitali, distrazione. Il percorso dell’analisi parte dalla difficoltà di dare una definizione dell’attenzione. Non esiste solo una dimensione qualitativa -la selezione degli stimoli- ma anche un aspetto qualitativo che riguarda il modo di trattarli. «Per esempio, è chiaro che quando leggiamo un libro riusciamo, grazie all’attenzione, a escludere moltissimi stimoli interni ed esterni, ma è altrettanto vero che se siamo stanchi abbiamo maggiori difficoltà a concentrarci e può accaderci di leggere una pagina e non essere in grado di ricordare nulla di ciò che abbiamo appena letto».
La distinzione tra guardare e vedere o tra sentire e ascoltare, suggerisce una differenza tra il semplice percepire e il percepire «con l’aggiunta di qualcosa». Questo qualcosa in più sembra appunto essere l’attenzione. È la psicologia che ha sistematicamente indagato cosa si debba intendere per attenzione. In particolare affrontando le tre metafore principali usate per studiarla: il filtro, il fascio di luce e la risorsa scarsa. I sensi sono visti come canali di elaborazione in parallelo dell’informazione. La distrazione è vista come il «rumore» nel canale di comunicazione e l’attenzione ha il compito di distinguere le informazioni rilevanti dal semplice rumore e quindi permettere il passaggio delle prime ed escludere il rumore. Con l’accento spostato sulla visione si arriva all’attenzione come fascio di luce che permette l’individuazione di eventi all’interno del suo raggio. Per superare i limiti del cercare e non trovare e del guardare e non vedere, si è cominciato a parlare di attenzione non più come una quantità fissa che viene distribuita tra le diverse attività, ma piuttosto in termini variabili: migliora con esercizio e abitudine. La psicologia cognitiva si è basata su un approccio individualista, secondo cui è possibile indagare i processi mentali attraverso lo studio di individui singoli isolati. Ma d’altra parte gli individui sono studiati in quanto attraverso di essi è possibile accedere ai processi mentali universali, ovvero condivisi da tutti gli esseri umani indipendentemente dalle specificità storiche o culturali.
Per ottenere il risultato desiderato secondo l’autore occorre evitare la riduzione della mente al cervello e riconoscere che la cognizione è un processo collettivo, in cui intervengono sia la divisione del lavoro sia gli apparati tecnologici. La selezione del campo percettivo, che operiamo attraverso l’attenzione, è guidata non solo da leggi universali della percezione umana, ma anche da norme squisitamente sociali, che possono variare a seconda del gruppo sociale di appartenenza. Mentre la sociologia culturale guarda all’uso delle risorse culturali, o all’aspetto normativo, gli approcci «economici» sono interessati più che altro al lato della produzione dei messaggi di cattura dell’attenzione e affrontano più direttamente i processi di valorizzazione dell’attenzione. Si arriva a parlare di economia dell’attenzione. Oggi, e sempre di più nel futuro, molti beni e servizi sono gratuiti, o meglio, sono forniti in cambio dell’attenzione del consumatore. Per non farsi schiacciare sulla sola dimensione dell’allerta, i sociologi hanno introdotto l’idea di regimi dell’attenzione: allerta, fidelizzazione, immersione e proiezione. Nella modernità capitalistica, in cui ci troviamo a vivere in quasi tutto il mondo, alla produzione del nuovo come norma si associano sovrastimolazione e anestetizzazione.
Qualunque sia l’azione che ci proponiamo di fare, siamo soggetti a diversi ordini di potenziali disturbi: per esempio, possiamo pensare di controllare brevemente un quotidiano online (e da lì iniziare uno strano percorso di navigazione), essere interrotti da un messaggio whatsapp, oppure semplicemente controllare che qualcuno ci abbia scritto, dare un’occhiata a facebook e alla casella di posta elettronica (e magari commentiamo la frase di un amico e rispondiamo a qualche email) e così via. Il risultato finale è che ci è rimasto ben poco tempo da dedicare all’attività programmata e ci sentiamo in colpa per non essere riusciti a portarla a termine. Il multitasking sembra poter garantire la realizzazione di un sogno: se riuscissimo a fare più cose nello stesso intervallo di tempo è come se aumentasse il tempo a nostra disposizione. Come tutte le pene infernali, ha ulteriori costi: da un lato, riduciamo le «performance», cioè facciamo più cose, ma male (e magari più lentamente); dall’altro, coltiviamo sempre meno i meccanismi neuronali della concentrazione su un obiettivo a lungo termine.
I regimi dell’attenzione moderni sono in sintesi caratterizzati dalle seguenti opposizioni: orientamento al futuro contro possibilità riflessiva, ricerca di stimolazione contro anestetizzazione dell’attenzione, novità contro già visto, libertà etica contro normazione temporale, edonismo contro disciplina. «Possono essere pensati come poli di una tensione dialettica che non produce alcuna sintesi: le forze che li animano si scontrano continuamente e i loro equilibri di potere variano molto a seconda dei contesti e dei periodi storici». Ognuno di noi, per venire a patti con questo mondo, per interpretarlo e agire in esso, ha a disposizione un fondo di conoscenza che è il risultato della sedimentazione delle proprie esperienze precedenti. Queste derivano sia da esperienze dirette sia da esperienze trasmesse a noi da altri (nostri pari, insegnanti, genitori, e così via). Si parla di sistemi di rilevanza che, poiché sono il risultato anch’essi di esperienze sedimentate, fanno parte del fondo di conoscenza.
I sistemi di rilevanza dipendono in definitiva dalla storia personale di ciascuno ma sono anche socialmente distribuiti, e di conseguenza non tutti i gruppi sociali condividono la stessa matrice che guida l’attenzione. Ogni apprendimento avviene all’interno di un contesto (di un frame) e ogni frame implica anche abitudini a rivolgere la propria attenzione a determinati mondi. Abitiamo un mondo pubblico e uno privato, uno lavorativo e uno familiare, un mondo degli affetti e quello dell’interesse, quello dello svago e quello dell’impegno e infiniti altri che si intersecano tra loro. Ognuno di questi mondi reclama la nostra attenzione e varchiamo di continuo i confini tra l’uno e l’altro e ciò che ci consente tutto questo è qualcosa di più complesso dell’attenzione focale. Sarebbe inutile lamentarsi del suo deteriorarsi. Occorre invece riflettere su come l’attenzione venga attirata su uno o sull’altro di questi mondi per essere valorizzata, misurata e trasformata in un bene da scambiare sul mercato. Quindi, al tempo dei big data, l’attenzione diventa sempre più economicamente rilevante, soprattutto con le tecnologie dell’informazione che producono e vendono contenuti.
In conclusione, pensare di affrontare il maggior successo della hyper attention attraverso un’azione limitata al singolo individuo significa non riconoscere che tale successo è il risultato di un processo sociale più generale, che riguarda il funzionamento dell’attuale modo di produzione capitalistico. Delegare al singolo individuo la capacità di resistere all’offensiva permanente alla nostra attenzione non coglie il centro della questione e ha l’effetto perverso di fomentare i sensi di colpa.
Enrico Campo
La testa altrove
Donzelli Editore, Roma 2020
Pagine 272 euro 28,00
(Recensione di Renzo Gorla)