«Negli anni Trenta del Novecento c’erano circa 200.000 ricercatori attivi nel mondo, intorno agli anni Sessanta il numero era passato a un milione circa e a fine secolo c’erano almeno 5 milioni di ricercatori. Ma in quegli anni cominciavano ad affacciarsi in modo serio e strutturato al mondo della ricerca paesi che sino a quell’epoca si erano tenuti ai margini in Africa, Sud America, ma soprattutto in Asia con Cina e India a gettare tutto il loro peso demografico nell’arena della ricerca scientifica.
Tra il 2014 e il 2018 il numero di ricercatori è cresciuto tre volte più velocemente (13,7%) rispetto alla popolazione mondiale (4,6%). Se nel 1960 gli Stati Uniti rappresentavano circa il 69%dei finanziamenti mondiali per ricerca e sviluppo, nel 2020 la quota era scesa al 31%. E questo non per via di una riduzione degli investimenti, che invece hanno continuato a crescere, ma grazie agli incrementi ancora maggiori dei finanziamenti di governi e industrie di altri paesi.
Morale, con tutte queste new entries nel 2012 c’erano circa 12 milioni di scienziati attivi e oggi la cifra potrebbe essere 15 milioni se non di più. Stiamo parlando di 15 volte i ricercatori che c’erano nel 1960. Se la popolazione mondiale, 3 miliardi nel 1960, fosse cresciuta di pari passo ora saremmo 45 miliardi e francamente non oso immaginare le conseguenze».
Gianfranco Pacchioni insegna chimica dei materiali all’università di Milano Bicocca e nelle pagine di ringraziamenti del libro dice: «È da tempo che avevo la percezione un po’ confusa che la scienza stia cambiando pelle e che le innovazioni più profonde non avvengano più o non avvengano solo nei laboratori universitari ma sempre più spesso nascano fuori, in ambito privato, riservato e pertanto non facilmente accessibile. Come si può immaginare il problema nello scrivere un libro così è stato quello di dare una dimensione quantitativa al fenomeno con dati e cifre a sostegno di questa ipotesi. Per lungo tempo mi sono dovuto accontentare di dati incompleti, evidenze parziali, cose più vicine al pettegolezzo che a una seria analisi scientifica».
Invitato a far parte di un panel ristretto chiamato a discutere dell’uso dell’intelligenza artificiale nelle pubblicazioni scientifiche, è venuto in contatto con Cecilia Rikap, professore di economia allo University College London, ed è venuto a conoscenza delle sue approfondite e circostanziate analisi sul fenomeno del monopolio intellettuale esercitato dalle Big Tech in campo scientifico. In altre parole non è facile per un ricercatore avere dati che gli permettano di conoscere in quale contesto la sua attività di ricerca si collochi (vedi i dati qui sopra riportati) e se tutti i tipi di ricerca, portando a risultati trasparenti e facilmente accessibili a tutti, determinino il continuo progresso della conoscenza.
Se è ovvio che le attività di ricerca militare siano coperte da riservatezza, nelle democrazie sono i parlamenti che ne stabiliscono i confini, le finalità e i finanziamenti. Seppur labile esiste un controllo su dove la ricerca militare va indirizzata e i suoi confini. Caso diverso è quello della ricerca industriale in ambito privato. Per tutto il Novecento il meccanismo della ricerca industriale è stato finalizzato al miglioramento di un dato prodotto e alla conquista di nuove fette di mercato. È del tutto evidente che nella ricerca industriale ogni miglioramento deve essere protetto, difeso da ogni tentativo di riproduzione: lo sanno bene gli addetti agli uffici brevetti delle grandi aziende.
«Oggi sempre più aziende destinano una parte considerevole delle loro entrate all’innovazione. Nel 2003 in cima alla lista delle aziende che spendevano di più in ricerca c’era Pfizer, colosso farmaceutico. Cinque delle prime dieci aziende al mondo erano case automobilistiche. Microsoft occupava il settimo posto con un “modesto investimento di 10 miliardi di dollari al valore attuale. Insieme tutte queste aziende investivano 107 miliardi di dollari in R&S (sempre a valori attuali). Vent’anni dopo è cambiato tutto.
Nel 2022 le prime cinque aziende al mondo per spesa in ricerca sono le Big Tech – Amazon, Alphabet(Google), Facebook(Meta), Apple, Microsoft – in classifica sono entrati un paio di giganti orientali, Huawei e Samsung e l’ultima azienda automobilistica rimasta è Volkswagen. Insieme le prime 10 aziende in questa graduatoria hanno speso in ricerca quasi 300 miliardi di dollari, il triplo di vent’anni prima ai valori di oggi. […] Mentre negli anni settanta spesa privata e spesa pubblica grosso modo si equivalevano, oggi i rapporti sono totalmente rovesciati a favore di quella privata che attira finanziamenti tre volte maggiori».
Non siamo di fronte alla creazione di prodotti commerciali innovativi e migliorati in grado di sostituire quelli utilizzati sino ad ora. «Lo scopo finale di queste ricerche è quello di mantenere il controllo assoluto sulle tecnologie destinate a divenire essenziali o capaci di cambiare radicalmente i nostri stili di vita in modo irreversibile». Tali ricerche procedono con tempi, modalità e direzioni che vorremmo forse conoscere e comprendere, mentre siamo destinati a subire e a scoprire via via che le cose appaiono e si rendono disponibili. A oggi senza alcuna possibilità di incidere minimamente sui processi decisionali che stanno dietro questi avanzamenti.
Gianfranco Pacchioni
Scienza chiara, Scienza oscura
Ricerca pura, ricerca militare, Big tech
Il Mulino, 2025
Pagine 240 euro 17
Recensione di Renzo Gorla