SCIENZA/ Brandmuller: Galileo, tra mito e realtà

- La Redazione

Prosegue il cammino verso il Meeting di Rimini dei trent'anni e le grandi mostre scientifiche. Vi proponiamo la sintesi dell'intervento di Walter Brandmuller, Presidente del Pontificio Comitato di Scienze Storiche, in presentazione della mostra su Galileo nel 2000

Prosegue il cammino verso il Meeting di Rimini dei trent'anni e le grandi mostre scientifiche. Vi proponiamo la sintesi dell'intervento di Walter Brandmuller, Presidente del Pontificio Comitato di Scienze Storiche, in presentazione della mostra su Galileo nel 2000

I giudizi su Galileo affiorano solo quando si disattendono i principi basilari del metodo storico critico. Il suo caso va compreso a partire dai presupposti del suo tempo. Bisogna considerare Galileo e i suoi giudici con gli occhi di un contemporaneo, il quale trovandosi nell’accadere dell’evento non può essere al corrente di tutto ciò che appare ovvio ai posteri. È consigliabile domandarsi quale fosse la mentalità di Galileo e dei suoi contemporanei e come siano stati valutati i provvedimenti ecclesiastici degli anni 1616 e 1633. Anzitutto la maggior parte dei dotti di quel tempo possedeva una levatura di stampo universalistico. Tutta una serie di ecclesiastici e religiosi si occuparono di fisica, matematica e astronomia. Il più importante interlocutore di Galileo, il cardinale Roberto Bellarmino tenne anche corsi di astronomia all’università di Lovanio. E il cardinale Barberini che in seguito, divenuto papa con il nome di Urbano VIII, dovette approvare la condanna di Galileo, non era soltanto un suo ammiratore, ma possedeva anche notevoli conoscenze fisiche e astronomiche.

Per contro, Galileo era anche dotato di una formazione religioso-teologica molto solida e aveva non pochi preti e teologi come amici, collaboratori e interlocutori. Queste dunque erano le premesse a partire dalle quali i contemporanei di Galileo valutarono lui e le sue tesi. Rivolgiamoci innanzitutto a Blaise Pascal, che scrive a proposito di Galileo: «Tutti i fenomeni del movimento dell’arretramento dei pianeti scaturiscono perfettamente da quelle ipotesi che si possono riscontrare in Tolomeo, Copernico, Ticone e in molti altri; di tutte queste ipotesi una sola può essere vera. Ma chi potrebbe pronunciare un giudizio così grave e chi preferire un’ipotesi a scapito di altre, senza incorrere nel pericolo di errore?» In modo del tutto simile si esprime Cartesio.

Dopo queste premesse, non meraviglia affatto che i giudizi di Pascal e di Cartesio sullo stato delle cose fossero quasi identici a quelli dell’inquisizione. Già durante la prima discussione riguardante Copernico nel 1615, il cardinale Bellarmino sostenne la seguente posizione: «Con certezza il problema riguardante la questione Tolomeo e Copernico non è affatto una questione riguardante la fede. Ciò è appropriato in verità all’oggetto scientifico, ma si ha anche a che fare con dei contenuti della Sacra scrittura. Se ci fosse una vera prova a favore del sistema eliocentrico, si dovrebbe procedere in modo molto cauto nell’interpretazione della Sacra scrittura e piuttosto dire che noi non avremmo compreso il suo modo di esprimersi, che dire che sia falso quello che si dimostra?». Bellarmino si dichiarava così niente affatto persuaso che tale prova esistesse fino a quando non gli venisse fornita. C’è una grande differenza fra il dire che il sistema copernicano corrisponde a tutte le osservazioni astronomiche e le spiega e il ritenerlo come l’unico vero. Viene spontaneo un paragone con il modello atomico di Niels Bohr, che per la verità non ha mai ritenuto che nell’atomo le cose accadano e si presentino esattamente così come il suo modello le rappresenta.

Il fatto che Galileo fosse affascinato dalla sua intuizione al punto da non potersi rendere conto di questa evidenza teoretico-scientifica, gli impedì di cogliere che il Santo Uffizio e la Congregazione dell’indice avevano ragione, quando non condivisero il suo ottimismo conoscitivo e ammisero i limiti della possibilità della conoscenza scientifica in modo più chiaro di quanto facesse Galileo. Del resto quelle che Galileo addusse come prove per la sua tesi potevano forse provare l’insostenibilità di Tolomeo, ma in nessun modo la validità di Copernico. Il mondo romano degli esperti aveva sì abbandonato Tolomeo, ma non poteva decidersi a giurare su Galileo. Né Copernico, né Galileo avevano proposto qualcosa che andasse oltre ai limiti di un’ipotesi; non si poteva parlare di una prova stringente. Solo Newton, formulando la legge di gravità, ha aperto, cinquant’anni dopo, la strada per provare il movimento terrestre.

Dall’altra parte anche il Santo Uffizio sbagliava credendo di riconoscere una contraddizione fra Copernico e la Bibbia, mentre a sua volta lo stesso Galileo aveva saputo molto giustamente distinguere tra l’ignoranza della Sacra scrittura e la capacità di errare dei suoi interpreti.

In che modo si è arrivati a far sì che una questione di scienza naturale diventasse una questione teologica? Tutto ciò è comprensibile a partire dal retroterra storico-culturale del Barocco, all’opposto della nostra concezione di un mondo suddiviso in settori autonomi dotati di leggi proprie, dove la religione lotta per il suo diritto all’esistenza. L’uomo dell’epoca di Galileo, invece, contemplava con uno sguardo affascinato e grandioso cielo e terra, tempo ed eternità, il divino e l’umano, chiesa e mondo, scienza, tecnica e fede come armoniche parti costitutive di un unico grandioso ed onnicomprensivo cosmo uscito da Dio e tendente a Dio. Quando perciò i documenti del Santo Uffizio si rivolgono severamente contro la dottrina secondo la quale il Sole – e non la Terra – è il centro attorno al quale tutto ruota, ciò deriva dal fatto che nel comune modo di vedere teologico-esistenziale dei contemporanei di Galileo, la Terra era in primo luogo un palcoscenico della divina rivelazione e redenzione. Inoltre l’affare Galileo venne visto in connessione con la situazione religioso-politica dell’Europa, dove il protestantesimo si diffondeva sempre più con l’aiuto di una politica compiacente. La prospettiva di cadere in difficoltà all’interno della Chiesa a causa di dispute teologiche che avrebbero aggravato ulteriormente la già pericolosa situazione religioso-politica può aver talmente allarmato Urbano VIII che gli fu impossibile affrontare il caso Galileo con quella calma e superiorità che a noi potrebbero sembrare oggi convenienti.

Bisogna rendersi conto che, almeno agli occhi degli interessati, la posta in gioco era la genuina autorità della Bibbia, che era diventata il punto nevralgico della controversia teologica con la riforma. L’attenersi fermamente alla sua interpretazione verbale e persino letterale fu suggerito alla Chiesa già dal suo istinto teologico-religioso di sopravvivenza.

In non poche pubblicazioni sul caso Galileo, poi, il giudizio pronunciato sulla questione che lo concerneva viene caratterizzato come uno dei molti errori del magistero ecclesiastico con cui la Chiesa avrebbe smentito una volta per sempre la sua pretesa ad autorità infallibile in questioni di fede. Ma le cose non stanno in questi termini. Innanzitutto le cosiddette decisioni magisteriali infallibili possono essere emanate solo da un concilio ecumenico e in ogni caso soggiacciono in quanto tali a dei criteri ben precisi. Una decisione del genere non si verificò mai nel caso Galileo. E precisamente perché sia nel 1616 che nel 1633 erano in azione istanze non qualificate per l’esercizio del magistero infallibile.

Nelle sentenze del 1633, ad esempio, il sistema eliocentrico viene designato come contrapposto alle Sacre Scritture ma non tuttavia come eretico. Stando allo stato delle cose era stata consapevolmente lasciata aperta la strada per la prova del contrario tramite ulteriori ricerche. Infine, non si può parlare di una paralisi della ricerca scientifica nei paesi cattolici in conseguenza del processo di Galileo. La miglior prova è costituita dal fatto che Galileo stesso – e ciò avvenne sotto la sorveglianza dell’inquisizione comunque la si intenda – potè scoprire nel 1637 le oscillazioni della Luna grazie alle ulteriori osservazioni astronomiche.

Ma, ci si potrebbe domandare, il comportamento delle istanze curiali non va a sfociare nella repressione della libertà dello spirito e della ricerca? Non si trattò di una pura e semplice volontà di mantenere il potere? Per rispondere adeguatamente a simili domande occorre, naturalmente, che si sappia cosa siano la Chiesa e la divina rivelazione. Ai giudici di Galileo e anche a noi è ben noto che la verità rivelata da Dio nel Vangelo era il sommo bene dell’umanità e che era stata affidata alla Chiesa per una trasmissione integra; nel dubbio se la nuova astronomia fosse omeno in contrasto con la parola di Dio, l’incolumità della fede ebbe un peso maggiore che una nuova teoria astronomica non ancora provata.

Questa decisione, ben compresa da Pascal e Cartesio, non dovremmo considerarla dal punto di vista della società secolarizzata e pluralistica e neppure secondo la prospettiva di un professore bloccato, fissato sull’oggetto della sua ricerca, bensì a partire dallo sfondo storico-culturale dell’epoca barocca precedentemente delineato. Anche i giudici di Galileo hanno diritto ad essere giudicati secondo giustizia.

(Walter Brandmuller, Presidente del Pontificio Comitato di Scienze Storiche, Meeting di Rimini 2000)







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