Si sta rialzando la temperatura del dibattito sul riscaldamento globale del clima, in vista della prossima Conferenza delle Parti (COP 16) che si terrà a Cancun (Messico, 29 novembre – 10 dicembre) e raccoglierà lo scomodo testimone della COP 15 di Copenhagen.
Ma non si tratta solo di dibattito. Ci sono azioni concrete, decisioni che vengono prese, magari senza troppo risalto pubblico, e accordi che si stanno preparando nelle segreterie e tra i comitati tecnici. Molte di queste iniziative ruotano attorno alla “DG CLIMA” (Directorate-General for Climate Action), istituita nel febbraio 2010 a ridosso del fallimento della conferenza sul Clima di Copenhagen. A presiederla c’è la combattiva Connie Hedegaard, che della conferenza di Copenhagen era stata l’animatrice ma non aveva esitato ad andarsene sbattendo la porta di fronte all’impossibilità di arrivare a risultati significativi.
Nel maggio scorso la Hedegaard ha alzato l’asticella delle azioni per il clima, proponendo di portare dal 20% al 30% la riduzione delle emissioni di gas a serra della UE rispetto ai livelli del 1990 entro il 2020. A tale scopo ha presentato una dettagliata analisi dei costi-benefici e delle possibili opzioni per raggiungere tale traguardo; anche se lei stessa ha subito ammesso che «i tempi non sono ancora maturi per una decisione».
La scorsa settimana, durante la riunione preparatoria, si è candidata a guidare una posizione unitaria della UE a Cancun che ribadisca la leadership europea nella lotta contro il cambiamento climatico. Infine ieri, nel corso della conferenza stampa internazionale che ha convocato a Bruxelles, ha indicato quali sono le realistiche aspettative europee per la COP 16.
Tenendo conto che alle emissioni globali di CO2 l’Europa contribuisce per il 14%, mentre un buon 20% va agli Usa e un altro 20% alla Cina, si capisce che i problemi non verranno certo dal Vecchio Continente: «A Cancun andiamo con la stessa disponibilità e gli stessi ambiziosi obiettivi che avevamo a Copenhagen, ma tutto dipenderà dal comportamento degli altri grandi. Io penso che si potranno ottenere dei risultati circa il problema della lotta alla deforestazione: ritengo possibile un accordo quadro sulle foreste, il mondo è ormai pronto per firmare un accordo del genere. Altri passi importanti si potranno fare in vista di nuove azioni cooperative per le misure di adattamento ai cambiamenti climatici e anche per trovare finanziamenti per l’innovazione e il trasferimento tecnologico. Quanto a un accordo generale e vincolante, troppe sono le incertezze».
Peraltro, nello staff della DG Clima c’è la consapevolezza che non ci si possa permettere un altro insuccesso: Cancun deve riuscire, o almeno stabilire una solida base per il successivo COP 17 nel 2011 in Sud Africa. «è vero che il processo delle conferenze Onu è macchinoso e lento, ma non mi sembra che ci siano alternative». Con questo spirito la Hedegaard ha affrontato le tappe verso Cancun: dopo una serie di summit in settembre e ottobre, nella prossima settimana ci sarà in Messico una riunione preliminare a livello ministeriale e lì si potranno già delineare i possibili orientamenti.
Intanto, accanto alle trattative e ai dibattiti ci sono azioni come quella decisa dalla Commissione Europea pochi giorni fa, che fissa un tetto al numero di quote di emissione che saranno disponibili nell’ambito del sistema UE di scambio di emissioni (ETS) nel 2013: il “tappo”, stabilito in 2.039 milioni, si tradurrà in un calo 21% delle emissioni rispetto al livello del 2005 entro il 2020.
È un altro passo verso il raggiungimento degli obiettivi del protocollo di Kyoto.
La CE ha appena ultimato un rapporto per il Parlamento Europeo nel quale si dichiara convinta della possibilità per i Quindici di conseguire questo traguardo. I dati presentati nel rapporto mostrano che le emissioni di gas serra nei quindici Paesi sono scese per il quinto anno consecutivo e le proiezioni stimano ulteriori decrementi (anche se con la complicità dell’attuale fase di recessione economica). Più precisamente, chi si avvia sulla strada di Kyoto sono sei stati membri (Finlandia, Francia, Germania, Grecia, Svezia e UK) mentre Paesi come Italia e Austria fanno ancora fatica a raggiungere il loro target.
Ma incombe il problema del dopo Kyoto: il protocollo infatti scade nel 2013 e ci si interroga se e come proseguire. «Noi siamo pronti per un secondo Kyoto, ma non in modo incondizionato. Anche perché Kyoto copre solo un terzo del problema e bisogna comunque ampliare il campo di intervento.
Di fronte alla difficoltà obiettiva di trovare questo largo accordo, alcuni dicono che è meglio rinunciare a delle norme vincolanti internazionali e che potrà essere il mercato stesso a trovare le sue regole e un suo assestamento. Io non lo credo; e l’esperienza dell’Europa me lo conferma: senza dei traguardi da rispettare è molto facile che le contingenze prevalgano e che ci si lasci distrarre da altri obiettivi. Basta pensare a come è cambiato in questi anni, sulla spinta di Kyoto, il modo di affrontare certi problemi, come l’abitare o i trasporti».
Per gli anni che separano le due date fatidiche, 2013 e 2020, il citato rapporto della CE, oltre a richiamarsi alla “Effort Sharing Decision” e alle rinnovate direttive ETS, suggerisce delle linee che vanno dallo stabilire obiettivi vincolanti per le energie rinnovabili, alla emanazione di nuovi standard di emissione per i veicoli, alla direttiva CCS (relativa alle tecnologie di cattura e stoccaggio della CO2) e alla direttiva Fuel Quality (sulla qualità dei carburanti).