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Home » Scienze » SPAZIO/ L’autovelox galattico ha “beccato” l’ammasso più lontano

  • Scienze

SPAZIO/ L’autovelox galattico ha “beccato” l’ammasso più lontano

Giovanni Rosotti
Pubblicato 23 Dicembre 2010
gruppo_galassie_hickson_R400

GIOVANNI ROSOTTI illustra a IlSussidiario.net una importante scoperta astronomica e ci spiega come sia possibile guardare "indietro nel tempo"

È l’ammasso di galassie più lontano mai osservato: così almeno risulta la struttura cosmica JKCS401, secondo le recenti misure pubblicate da Stefano Andreon (dell’INAF-Osservatorio astronomico di Brera) e colleghi di un’ampia collaborazione di ricerca. Per una legge che gli astrofisici conoscono bene, questo equivale a dire che è anche il più antico che si conosca. Quando infatti guardiamo gli oggetti astronomici, dobbiamo ricordare che la luce che hanno emesso ha impiegato milioni, o addirittura miliardi di anni per giungere fino a noi; così, più andiamo a guardare lontano, più andiamo indietro nel tempo. Questo permette di avere a disposizione una sorta di “macchina del tempo” che ci consente non solo di conoscere com’è fatto l’universo attuale, ma anche di poterne seguire l’evoluzione.


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L’ammasso in questione è molto antico: circa 10 miliardi di anni, il che significa che l’universo aveva solo poco più di 3 miliardi di anni. Ma, nella misura effettuata c’è ben più di un semplice record. Vedere un oggetto così lontano infatti è un test fondamentale per i modelli teorici di evoluzione delle galassie. E i risultati di Andreon e colleghi non sono in accordo con il paradigma standard di formazione delle galassie e pongono nuovi interrogativi sul modo con cui le galassie si sono formate.


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La misura effettuata non è totalmente nuova, ma un lavoro simile era già stato pubblicato circa un anno fa sempre da Andreon. Allora il valore ottenuto, piuttosto incerto, del redshift era di circa z=2. Per i cosmologi il redshift è un modo di misurare le distanze e indica di quanto si è spostata verso il rosso la luce dell’oggetto che stiamo osservando.

A causa dell’espansione dell’universo infatti, la lunghezza d’onda della luce viene “stirata” e gli oggetti diventano via via più rossi più sono lontani. La misura, allora condotta incrociando i dati nei raggi X del satellite Chandra (Nasa) con quelli nell’infrarosso dello United Kingdom Infrared Telescope aveva causato qualche perplessità tra gli astrofisici.


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È per questo che è stata migliorata la misura, utilizzando i dati delle survey (le survey sono campagne di osservazione in cui si osserva una grande quantità di oggetti di un certo tipo) CFHTLS e WIRDS. Non solo i dati hanno confermato la misura precedente, ma hanno addirittura riveduto la stima al rialzo: il valore ottenuto è di z=2,2.

Il procedimento utilizzato per giungere al redshift è particolarmente delicato, in quanto non sono disponibili misure spettroscopiche dell’ammasso in questione. Un esempio di spettro lo conosciamo tutti: è quello che si ottiene dalla luce del Sole o di una lampada utilizzando un prisma. Lo spettro dice quanto ogni colore, o meglio ogni lunghezza d’onda, è presente nella luce che stiamo osservando. Il modo più diretto allora per misurare il redshift è proprio fare lo spettro e misurare di quanto i vari colori si sono spostati verso il rosso a causa dell’espansione dell’universo. Purtroppo le misure di spettro sono molto difficili per le sorgenti deboli come quella in questione (nonostante i tentativi di Andreon al più grande telescopio del mondo, il VLT) e hanno bisogno di una grande quantità di tempo; quindi, man mano che l’astrofisica sta avendo a che fare con un numero via via più grande di sorgenti, è sempre più piccola la frazione di quelle di cui abbiamo a disposizione lo spettro.

 

Gli astronomi si sono allora ingegnati in un altro modo: si può scattare la stessa immagine con differenti filtri (ad esempio rosso, verde, blu, anche se gli astronomi hanno altre convenzioni), e confrontare le immagini ottenute. In questo modo si può quantificare quanto il colore si è spostato verso il rosso e avere una misura del redshift. Per farlo però uno deve sapere com’è fatto l’oggetto che sta guardando. E proprio qui sta l’inghippo: essendo questo l’ammasso più lontano, è molto difficile sapere com’è fatto!

 

Per ovviare al problema, gli scienziati hanno utilizzato un altro ammasso, IRC0218A, che ha un redshift più basso (z=1,62), ma abbastanza simile, e del quale sono disponibili misure spettroscopiche. Uno può così controllare che la misura spettroscopica e quella con i filtri (che si chiama fotometrica) diano lo stesso risultato e tarare la meno affidabile (quella fotometrica). Così si riduce il rischio di compiere errori, dal momento che i due ammassi sono abbastanza simili. Se, per esempio, prendessimo una multa per eccesso di velocità e il verbale della polizia indicasse una velocità di 160 km/h così come il nostro tachimetro, questo ci renderebbe confidenti che andando a 220 km/h il tachimetro ci dà un’informazione affidabile. Se, viceversa, avessimo constatato l’accordo tra tachimetro e autovelox in una zona abitata procedendo a 40 km/h, non potremmo sapere se quando il tachimetro indica 200 km/h esso è tarato correttamente.

 

È dunque importante avere misure della stessa quantità fatte con metodi diversi, che ci rendano confidenti nell’applicare uno solo dei due quando l’altro non è a disposizione. Per inciso, il paragone con le velocità non è casuale, dal momento che tramite la famosa legge di Hubble il redshift può essere convertito in una velocità.

 

I dati ottenuto indicano che l’ammasso, pur così lontano, è però molto simile a quelli attuali, ad esempio nelle galassie che lo compongono. Questo significa che solo 3 miliardi di anni dopo il big bang le galassie si erano già formate ed erano già molto simili a quelle attuali. Ed è un tempo molto più breve di quelli su cui si pensava che avvenissero questi processi. A quanto pare, ci sarà parecchio lavoro per i teorici.


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