In questo momento il film di maggior successo nelle sale è Avatar, che deve molti dei biglietti venduti più alla tecnologia 3D che alla storia. Ad alcuni spettatori però la visione di due ore e mezzo di immagini tridimensionali è sembrata affaticante, quasi da generare un mal di testa. Ci sono delle motivazioni scientifiche alla base di questa sensazione? La psicofisica della visione aveva già studiato questo fenomeno in un articolo del 2008 di un gruppo di ricerca dell’Università di Berkeley in collaborazione con Microsoft e pubblicato sul Journal of Vision, articolo che oggi torna di attualità.
La ragione dell’affaticamento visivo risiede nel conflitto tra due fattori molto rilevanti nella percezione umana: la convergenza e l’accomodazione. Quando si osserva un oggetto che si avvicina a noi, gli occhi tendono a convergere spostandosi simmetricamente in direzione del naso: questo fenomeno prende il nome di convergenza. Nel contempo, il cristallino cambia la propria forma per poter mettere a fuoco l’oggetto che si avvicina. Questa variazione di messa a fuoco, che diventa più difficile con il passare degli anni rendendo impegnativa ad esempio la lettura del giornale senza appositi occhiali, prende appunto il nome di accomodazione. Osservando oggetti che si avvicinano normalmente, devono realizzarsi entrambi i fenomeni. Con le moderne tecnologie il problema sembra essere che, quando si guarda un film (o tra non molto tempo un monitor o un televisore) 3D, il meccanismo dell’accomodazione si blocca, come se il sistema visivo “sapesse” che l’azione si svolge tutta sulla superficie dello schermo. La convergenza però resta in azione, provocando un modo di vedere innaturale, che crea affaticamento.
La differenza di comportamento tra la percezione di una vera immagine tridimensionale, come quelle che la realtà continuamente ci ripropone, e un’immagine tridimensionale “fittizia” ripropone all’attenzione un dibattito che è in realtà molto antico, dato che risale all’invenzione della prospettiva da parte dei pittori. Il grande artista ha sempre saputo che l’osservatore di un’opera pittorica mette in azione fenomeni visivi diversi da quelli che entrano in moto nell’osservazione della realtà. Un classico esempio è la Scuola di Atene, notissimo affresco di Raffaello. L’opera creò un dibattito a cui partecipò anche il grande storico dell’arte Ernst Gombrich. Si tratta infatti di un dipinto a evidente prospettiva centrale in cui alcuni personaggi sulla destra tengono in mano delle sfere. Per i puristi della prospettiva questo era un errore dato che le sfere, per essere rappresentate in pieno accordo con la costruzione geometrica, dovevano avere forma ovale. Gombrich sosteneva che Raffaello utilizzava una “tolleranza” del nostro sistema visivo e affermava il diritto di emozionarsi di fronte alla Scuola di Atene senza «lamentarsi che le sfere non erano state rappresentate a forma di uovo».
È una visione molto moderna. Anni dopo un gruppo di ricerca americano sostituì digitalmente nell’opera di Raffaello le sfere con la loro versione “prospetticamente corretta”: tutti i pazienti, che non conoscevano l’opera originale, a cui fu sottoposta la scelta tra la versione di Raffaello e la versione “geometrica” preferirono il dipinto dell’artista di Urbino. Raffaello (che conosceva benissimo la prospettiva e che non avrebbe avuto problemi a rispettarla alla perfezione) sapeva che vedere un quadro era un’altra cosa rispetto a osservare una scena reale, e dipinse nella maniera artisticamente migliore. Anche oggi, un conto è la vita reale, un conto è il film 3D, e la percezione visiva se ne accorge.