CERN/ Sulle tracce della particella misteriosa troveremo risposte e tantissime nuove domande

- Mario Gargantini

Quanto manca e a cosa servirà scoprire il bosone di Higgs? L’italiana Fabiola Gianotti, a capo del progetto Atlas dell’acceleratore del Cern di Ginevra, lo ha spiegato ieri all’Università di Milano. Ce ne parla MARIO GARGANTINI

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L’immagine di Atlante che sorregge il mondo è il suggestivo richiamo contenuto nel nome di uno degli esperimenti in pieno svolgimento presso l’acceleratore LHC (Large Hadron Collider) del Cern di Ginevra. Il nome Atlas è, come al solito, un acronimo e sta per “A Toroidal Lhc ApparatuS”, ad indicare uno dei quattro megalaboratori collocati a 150 metri di profondità lungo i 27 km di LHC. Quella che Atlas sta per rivelarci è una sfuggente particella, nota ormai anche al grande pubblico come il bosone di Higgs, che in effetti ha molto a che fare con quello che Atlante porta sulle spalle: infatti la cattura del bosone permetterà di scoprire le leggi naturali che danno la massa alla materia e che fanno sì che l’universo sia quello che conosciamo.

Si giustifica quindi l’entusiasmo e insieme l’atteggiamento di grande concentrazione che traspare nei quasi 3000 fisici coinvolti nell’esperimento e in particolare in chi lo guida, vale a dire l’italiana Fabiola Gianotti, che ieri ha illustrato i primi significativi risultati che iniziano ad arrivare parlando in quell’università degli studi di Milano dove si è laureata quando ancora di LHC non c’era traccia. Ne ha parlato insieme a Lucio Rossi, anch’egli proveniente dalla stessa università milanese, che al Cern dirige il gruppo magneti di LHC ed è tra i leader del progetto dal punto di vista tecnologico.

È giustificato anche un certo orgoglio nazionale, dal momento che la partecipazione italiana ad Atlas, coordinata e finanziata dall’Istituto Nazionale di Fisica Nucleare (Infn), è composta da circa 240 fisici e ingegneri appartenenti a 13 strutture dell’Infn e a 12 Università. I ricercatori italiani hanno contribuito fin dall’inizio alla progettazione e alla realizzazione di molti dei rivelatori che compongono l’apparato sperimentale e alla preparazione degli strumenti di analisi delle collisioni. La Gianotti ha descritto e mostrato le immagini di Atlas, che si trova in una grande hall sotterranea nel primo punto di intersezione dei fasci di LHC: è lungo 45 metri e alto 25 metri, metà delle dimensioni della cattedrale di Nôtre Dame; e pesa circa 7000 tonnellate, come la Torre Eiffel.

L’esperimento è stato disegnato per studiare al meglio tutti gli aspetti della fisica delle collisioni protone-protone alla straordinaria energia di 14 TeV, ovvero Teraelettronvolt: unità di misura alle quali non siamo abituati, ma Gianotti spiega che quei valori equivalgono a centomila miliardi di volte la temperatura della sala in cui ci troviamo; oppure a dieci batterie da 1 volt per ogni stella della galassia.


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Cosa serve per scovare il bosone di Higgs? «Ci servono tre cose: un acceleratore, dei rivelatori e delle potenti strutture informatiche di calcolo. Ma soprattutto ci servono cervelli, uomini che imparino a dominare questi strumenti e a leggere quel particolare linguaggio. Ed è quello che facciamo con Atlas. Ricostruiamo tutto quel che succede durante una collisione tra particelle pesanti ad alta energia: in LHC, a regime, avvengono 40 milioni di urti frontali al secondo; bisogna quindi poterli registrare, analizzare, elaborare».

 

 

Un esperimento come Atlas è formato da una serie di rivelatori capaci di distinguere i vari tipi di particelle e di misurarne l’energia. Alcuni si trovano proprio in prossimità del punto di collisione. Segue un calorimetro elettromagnetico e successivamente il cosiddetto calorimetro adronico, dove si possono separare le particelle pesanti neutre da quelle cariche. Solo i muoni di alta energia riescono a oltrepassare i calorimetri e sono osservati negli appositi rivelatori posti nella parte più esterna dell’esperimento. Particelle neutre con bassa probabilità di interazione (neutrini ed eventuali altre particelle neutre non attualmente note) lasciano l’apparato sperimentale senza essere rivelate. La loro presenza può comunque essere evidenziata indirettamente dall’osservazione di una mancanza di quantità di moto.

 

 

La ragione dell’entusiasmo attuale dei fisici è che ora LHC «funziona bene», dice Rossi; e sta ormai abbattendo un primato dopo l’altro. Il 29 dicembre scorso è stato superato un primo record mondiale in energia con le collisioni a 2,36 TeV e dal 30 marzo si stanno raccogliendo dati alla nuova energia record di 7 TeV: più del triplo di quanto finora ottenuto in quello che era il più grande acceleratore, il Tevatron al Fermilab di Chicago. È la conseguenza dell’azione corale dei 10.000 magneti, di cui 7000 superconduttori, che spingono i fasci a compiere 11.000 giri completi al secondo, immagazzinando un’energia pari a 350 MJ: «più o meno quella di una portaerei inglese che viaggia a 12 nodi».

 

 

Ma a che scopo tutti questi sforzi? È la stessa Gianotti a non eludere l’interrogativo; e a dar ragione di quanto lei e i suoi colleghi stanno facendo. «Ci sono domande affascinanti per le quali non abbiamo ancora risposta: qual è l’origine della massa? Qual è la natura della materia oscura? Perché nel nostro universo c’è così poca antimateria, perché è stata favorita la materia? Cosa è successo subito dopo il big bang? Ci sono altre dimensioni dell’universo oltre alle quattro già note? Atlas ci aiuterà a trovare alcune delle risposte».

 

 

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La leader dell’esperimento mostra la foto di un monitor del suo laboratorio con i dati di pochi giorni fa che illustrano il raggiunto traguardo dei 3,5 TeV. E spiega la sequenza dei passi che potrebbero portare a importanti scoperte. «Il primo passo è ritrovare le particelle già note e rimisurarle proprio dove e come devono essere; così tra l’altro si collauda ulteriormente l’apparecchiatura. La maggior emozione di questi giorni è stata la riscoperto del bosone W, quello che ha valso il Nobel a Carlo Rubbia», osserva Gianotti mentre sullo schermo scorrono le immagini con le tracce di questa particella.

È così che i fisici riscoprono il cosiddetto modello standard, lo riconfermano sulla base di particelle note e sono pronti per accogliere, se appariranno, le novità. In primis il bosone di Higgs. Per questo però il cammino è ancora lungo «Per Higgs dovremo aspettare fino al 2013-14. Il motivo è che, se ha l’energia nella gamma di valori che ci aspettiamo, il suo segnale può essere facilmente confuso con altri e ci vuole molto lavoro di analisi statistica per avere delle evidenze certe».

 

I due fisici italiani sono comunque fiduciosi e proiettati con slancio verso l’esplorazione di nuove frontiere della conoscenza. Gianotti è convinta che tutta l’avventura di LHC «ci fornirà risposte ad alcuni interrogativi fondamentali della fisica; ma saranno ancor di più e più interessanti le nuove domande che aprirà. E soprattutto ci dirà quali sono le domande giuste da porre».

 

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