Il suo nome evoca la divinità distruttrice indù, Shiva, ma è solo una potente macchina per le ricerche sismologiche che da qualche mese è al lavoro a pieno ritmo nel Laboratorio HP-HT di Geofisica e Vulcanologia Sperimentali della sezione di sismologia e tettonofisica dell’Ingv (Istituto Nazionale di Geofisica e Vulcanologia) a Roma. Quello di cui ha parlato ieri all’Accademia dei Lincei il professor Giulio Di Toro è un apparato sperimentale del tipo Slow to High Velocity Apparatus (da cui la denominazione SHIVA) per lo studio della meccanica dei terremoti ed è il più potente finora costruito al mondo.
L’apparecchio è simile a un tornio: è stato realizzato in Italia ed è progettato per imporre una rotazione ad alta velocità (3000 giri al minuto) su provini di roccia di cinque centimetri di diametro, che vengono sottoposti a pressioni che troviamo in profondità sottoterra; vengono quindi simulate le straordinarie accelerazioni (fino a 80 m/s2) e le velocità di scivolamento (fino a 10 m/s) che possono essere raggiunte su una faglia durante un terremoto che avviene a qualche chilometro di profondità nella crosta terrestre.
In una frazione di secondo, SHIVA scarica sui campioni di roccia una grande potenza: fino a 280 kW, pari al consumo di circa 100 appartamenti e ben 20 volte di più di qualsiasi apparato sperimentale mai realizzato. Il risultato non è la banale frammentazione e disgregazione della roccia che ci aspetteremmo, ma addirittura la sua fusione istantanea in lava incandescente. Il confronto dei dati sperimentali con quelli di terreno, consente di estrapolare le osservazioni sperimentali in natura e offre una nuova visione dei terremoti.
«Le informazioni sulla meccanica di un terremoto – ha spiegato Di Toro – sono in genere ottenute mediante indagini sismologiche (sismogrammi e tecniche di inversione) e geofisiche (GPS, inSAR). Questo approccio offre un contributo limitato alla comprensione della meccanica dei terremoti, poiché non consente di rilevare i processi chimico-fisici attivati dalla propagazione della rottura e dallo sfregamento delle rocce.
Un approccio alternativo consiste nell’integrazione di studi geologico-strutturali di terreno di antiche faglie sismogenetiche esumate da processi geologici e che mettono a nudo il “motore dei terremoti”, con osservazioni microstrutturali e analisi mineralogiche-geochimiche dei materiali di faglia, esperimenti di laboratorio che riproducono le condizioni di deformazione tipiche di un terremoto e modelli numerici e teorici che combinano le informazioni di terreno e sperimentali in un modello unitario di propagazione della rottura sismica».
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Quindi i campioni sbriciolati da SHIVA danno delle informazioni solo su uno dei numerosi aspetti di quel complesso fenomeno naturale che sono i terremoti. Questi studi sperimentali devono essere poi integrati da altre informazioni ricavate dallo studio delle faglie naturali. Il terremoto è infatti il risultato di due processi: la propagazione della rottura, che “libera” i blocchi di roccia ai lati opposti della faglia e, una volta che i due blocchi sono liberi di muoversi, l’attrito dovuto allo sfregamento dei blocchi stessi.
La rottura si propaga a velocità di qualche chilometro al secondo, mentre i blocchi scivolano l’uno rispetto all’altro a velocità di qualche metro al secondo. L’apparato sperimentale installato a Roma consente appunto di studiare l’attrito delle rocce quando sono sottoposte a condizioni di sollecitazione tipiche di un terremoto. Dovendo impiegare provini di pochi centimetri di diametro (altrimenti la macchina sperimentale avrebbe dei costi spropositati), il team di Di Toro è in grado di determinare l’attrito delle rocce in un punto della faglia: per avere una visione completa del terremoto, occorre introdurre la geometria della faglia (alla scala chilometrica).
«A questo scopo stiamo conducendo una serie di studi nelle Alpi, dove affiorano delle faglie che scatenavano terremoti milioni di anni fa (oggi non ne producono più), per misurare con grande dettaglio la loro geometria. Solo integrando studi sperimentali con studi di terreno che possiamo avere una visione più completa della meccanica dei terremoti».
C’è da notare che SHIVA è uno dei pilastri di un programma di più ampio respiro, il progetto USEMS, finanziato dalla Unione Europea nell’ambito del Settimo Programma Quadro e all’interno del Programma Specifico IDEAS dell’ERC (European Research Council). Il titolo completo del progetto è Uncovering the Secrets of an Earthquake: Multidisciplinary Study of Physico-Chemical Processes During the Seismic Cycle e comprende rilevamenti geologici e altri studi di tipo mineralogico e geochimico.
È un progetto della durata di cinque anni (2008-2013) e Di Toro svolge il ruolo di Principal Investigator. L’idea del progetto è di offrire un’informazione complementare a quella che si ottiene dall’analisi delle onde sismiche. Ovviamente, la sismologia rimane uno strumento potentissimo per lo studio dei terremoti; però le onde sismiche non hanno la risoluzione sufficiente per studiare i complessi fenomeni chimici e fisici che avvengono lungo una faglia durante un terremoto: ecco allora l’importanza di uno strumento come SHIVA, che permette di vedere “più da vicino” cosa avviene durante un terremoto.