La ricerca scientifica può essere esaminata attraverso l’intreccio di teorie e ipotesi configurate per studiare i fenomeni naturali e l’evoluzione delle tecniche di rappresentazione concepite e applicate per descrivere ed elaborare i dati raccolti negli esperimenti: l’interazione tra congetture interpretative e potenzialità di validazione (matematiche o visuali) costituisce uno dei fattori strategici che possono far scaturire sorprendenti innovazioni.
Nel centenario delle fondamentali scoperte neurologiche di Camillo Golgi e in onore di Rita Levi di Montalcini (entrambi Nobel Italiani nelle ricerche sul cervello) si tiene a Milano un importante convegno internazionale: Brainforum 2011, “Il colore del pensiero”, con la partecipazione delle maggiori autorità istituzionali e scientifiche del settore (www.brainforum.it).
La ricerca nel campo delle neuroscienze si è avvalsa delle tecnologie digitali e delle attrezzature della risonanza magnetica per evidenziare cromaticamente (da qui anche il significativo parallelo Golgi-Montalcini) i dati delle specificità funzionali delle zone cerebrali attive in diversi contesti, fisiologici o patologici; l’obiettivo è di poter meglio comprendere e rappresentare, in modo dinamico e non invasivo, le modalità con cui il cervello umano vivente interagisce con gli stimoli, non sono sensoriali ma anche mobili o intellettivi. Tali problematiche, oltre all’intrinseco interesse scientifico ed epistemologico del poter “vedersi pensare”, aprono importantissimi versanti applicativi nella ricerca terapeutica e farmacologica delle malattie neurologiche e degenerative -come ad esempio la sindrome di Alzheimer o il Parkinson- che insidiano gravemente la qualità di vita dell’età avanzata.
I risultati delle ricerche presentate nel convegno offrono scenari e prospettive talmente variegate che sarebbe quasi impossibile si farne una ragionevole sintesi; abbiamo perciò rivolto alcune questioni salienti a un autorevole ricercatore italiano, Giacomo Rizzolatti, direttore del Dipartimento di Neuroscienze dell’Università di Parma, rinomato per le sue scoperte sui neuroni specchio.
È possibile tracciare una sintesi di quanto sta emergendo?
Una sintesi degli argomenti è molto difficile, perché le varie presentazioni sono molto eterogenee; però alla fine si resta con questa idea dell’unità del conoscere: una specie di quadro globale del cervello. Le relazioni hanno toccato temi molto disparati: dalla misurazione neurologica del suono alle percezioni ed emozioni della musica, dalle modalità di ri-costruzione del ricordo (regret), alla meravigliose rappresentazioni virtuali delle sterminate reti e sinapsi neuronali (analizzate anche al fine di poter costruire un mega-computer che ne emuli le capacità e la “natura”), dai rapporti cognitivi nella composizione musicale alle dinamiche apparentemente stocastiche della creatività.
Ma alla fine si esce “soddisfatti” perché si tratta di vari aspetti che si possono integrare, magari nel subconscio, riconoscendo l’interazione tra i diversi approcci disciplinari e la convergenza dei diversi aspetti.
Quali nuove direzioni di ricerca si possono intravedere?
Non si può vedere una semplicistica direzione chiara delle ricerche, in quanto assolutamente innovative. Abbiamo avuto dei lavori di anatomia molto raffinata anche a livello microcellulare, in cui la sterminata complessità quantitativa lascia impensieriti gli stessi autori che riconoscono di avere una ridondanza di informazioni e ancora scarsità di interpretazione. Ci sono correlazioni riscontrabili tra la creatività e le sinestesie e mi pare interessante il concetto per cui l’immaginazione potrebbe essere concepita come il primo passo per la creatività, ovvero il fatto che da una prima imitazione interiore, ulteriormente modificata, possa prendere spunto a un atto creativo attraverso l’immaginazione mentale.
Nel suo intervento lei non ha parlato di emozioni ma piuttosto di “empatia” ….
Sì, è un termine più vasto implicante non solo i sentimenti ma anche un senso di immedesimazione verso ciò che fanno gli altri quando si muovono o agiscono; non solo quindi legato alle intenzioni ma nel riflesso interiore dei comportamenti oggettivi altrui. Esiste addirittura una direzione di ricerca che teorizza un quadro unico dei deficit di empatia che si articolerebbe poi in numerose sfaccettature: in tale contesto si potrebbero comprendere dai border-line al narcisismo, in cui questo difetto di empatia si caratterizza come un eccesso dell’io, fino agli autistici in cui la mancanza di empatia porterebbe ad escludere anche se stessi. Il concetto di empatia potrebbe comprendere molti più aspetti di quello che normalmente intendiamo come un semplice sentimento.
Le attuali ricerche delle neuroscienze sembrano poter mettere in luce una sorta di nuova geografia anatomica dei fenomeni, finora considerati nella loro emergenza relazionale.
Credo che il termine migliore sia quello di “naturalization” coniato da Jean Pierre Changeux, cioè la naturalizzazione della filosofia o delle scienze morali, laddove non se ne nega il valore ma si tenta di trovare una base naturale per comprenderne meglio la ragion d’essere: il che arricchisce la spiegazione, non la toglie. Se noi capiamo che l’empatia ha una base neuronale non ne diminuiamo il valore ma ne scopriamo il fondamento naturale. Ho spesso ricordato come le dinamiche dell’empatia dimostrano come siamo costituiti per essere in rapporto e in partecipazione con gli altri; purtroppo la nostra società porta piuttosto a un taglio di tale apertura costitutiva, riportando le persone ad atteggiamenti individualistici.
Dati questi presupposti, quale può essere lo spazio e il valore dell’esperienza educativa, collocandosi tra un “substrato naturale” e una dimensione esperienziale?
È fondamentale! Tutta la nostra personalità e fatta da due componenti: una è genetica, l’altra è l’esperienza della società su di noi. Sicuramente noi abbiamo dei meccanismi molto forti ed innati per partecipare con gli altri: l’uomo è un animale sociale e nell’educazione questa predisposizione dovrebbe essere potenziata; invece mi sembra che i valori comportamentali impliciti nei modelli formativi attuali siano orientati all’individualismo, alla competizione e non alla collaborazione. Vengono eliminate le attitudini collaborative e socializzanti connaturate nella persona; questo mi pare uno dei principali difetti dell’attuale società occidentale che rischia di decadere nel puro egoismo, ovvero nella perdita del valore dell’altro. In termini statistici evidenti i quadri comportamentali narcisistici stanno aumentando in modo esponenziale con l’assurda conseguenza – da parte di alcuni ricercatori – di ipotizzarli addirittura come una “normalità”: ipotesi da cui assolutamente dissento.
Ancora una domanda: osservando “dall’esterno” le neuroscienze si ha l’impressione che stiano ritrovando una mappa sempre più dettagliata di quella “forma mentis“ rappresentata dal variegato spettro di conoscenze suddivise nelle numerose discipline del sapere: da quelle più intuitive e umanistiche a quelle più razionali e tecnico scientifiche, in una sorta di corrispondenza dinamica tra ciò che l’uomo riesce a conoscere del mondo reale e ciò di cui si trova ampiamente predisposto a sapere trattenere ed elaborare. Cosa ne pensa?
Il fatto che lei sottolinea è ragionevolmente riscontrabile nella evoluzione del bambino: ognuno ha delle sue competenze specifiche proprio geneticamente: non credo che Mozart avrebbe potuto diventare un campione di calcio né Maradona un musicista … Ognuno di noi parte con una base genetica su cui poi può inserirsi la società per sviluppare al meglio queste potenzialità; sulla base di tutto poi ci dovrebbe essere il rispetto per gli altri e l’amore per il prossimo, senza di questo non si va da nessuna parte, si sgomita e basta.
(a cura di Federico Brunetti)