Secondo Stephen Hawking la parola “Dio” sembra mettere sir Martin Rees particolarmente a disagio; nella prefazione a un libro di cosmologia di quest’ultimo, il vecchio compagno di studi di Cambridge faceva notare che Rees era riuscito a far “toccare al lettore la vera stoffa di cui è intessuta l’astronomia, praticamente senza mai menzionare Dio”. C’è da chiedersi se questo disagio crescerà o diminuirà adesso che Rees ha vinto il prestigioso Premio Templeton, il riconoscimento annuale da 1 milione di sterline (il più grande premio in denaro del mondo, più del Nobel), assegnato dalla Templeton Foundation a personalità che si sono distinte nel far incontrare la scienza con la dimensione spirituale e religiosa.
Certo, ora l’astronomo reale inglese, già presidente della Royal Society, si trova immortalato in un albo d’oro che comprende figure come la beata Madre Teresa di Calcutta, lo storico della scienza benedettino Stanley Jaki e il fisico pastore anglicano John Polkinghorne; per lui, che si è sempre dichiarato non credente, deve essere stata una sorpresa quella annunciata ieri a Londra. D’altra parte, lui stesso ha subito dichiarato al Guardian di non essere “allergico alla religione” e di partecipare occasionalmente alle funzioni religiose, anche se ha aggiunto “per gustare la splendida musica”.
C’è da dire che Rees è anche intellettualmente un gentleman: da un lato dichiara che fare scienza gli ha fatto capire che anche le cose più semplici sono difficili da comprendere e lo ha reso “sospettoso verso chi crede di avere qualcosa di più di una conoscenza incompleta e metaforica degli aspetti profondi della realtà”; dall’altro però non si è mai arruolato nelle brigate dei vari Dawkins e dello stesso Hawking per condurre attacchi senza sosta a chi vive l’esperienza di fede come potente alleata della ragione.
Anzi, ha espressamente criticato la posizione conflittuale di Dawkins e degli altri “atei professionisti” nei dibattiti su scienza e religione. E ha preso le distanze anche da Hawking e dalle sue dichiarazioni sulla non necessità di ipotizzare un Dio creatore: Rees conosce bene Hawking per sapere che “ha letto poco filosofia e meno ancora teologia” e perciò ritiene che le sue opinioni in proposito non debbano essere considerate più di tanto. Personalmente non è disposto a pronunciarsi su questi temi e ritiene avventati gli scienziati che lo fanno.
La sua carriera era iniziata proprio insieme a Hawking, quando i due erano giovani promesse della fisica inglese, alla scuola del grande cosmologo Dennis Sciama. Rees è stato uno dei primi a lavorare sulla teoria del Big Bang, che negli anni sessanta si è imposta sull’idea di uno stato stazionario dell’universo. Da allora ha affrontato tutti i punti cruciali della cosmologia e da queste profondità arriva a dialogare con i filosofi. Come ha affermato nel discorso di accettazione del Premio: “Ci sono prospettive speciali che cosmologi possono offrire alla filosofia? Penso sì. In primo luogo, le loro scoperte rivelano l’interconnessione dei processi cosmici. Non solo gli esseri umani condividono una comune origine con l’intera rete della vita sulla Terra, ma tutti gli esseri viventi dipendono dalle stelle: la vita è attivata dal calore e dalla luce del sole e noi siamo fatti di atomi, che sono stati forgiati da idrogeno incontaminato, in lontane stelle molto tempo fa. Per capire noi stessi, dobbiamo capire gli atomi di cui siamo fatti e la intricata complessità con cui si combinano nel DNA, nelle proteine e nelle cellule. Ma dobbiamo anche capire le stelle in cui si sono forgiati tali atomi”.
Rees è sempre stato attratto dalle grandi domande ed è questo che gli ha meritato il Templeton Prize che è impostato proprio sulle Big Questions. “Le grandi domande sono al centro dell’agenda della Fondazione Templeton. Nessuna è più grande di quelle poste dalla cosmologia. Quanto è grande la realtà fisica? Qual è il ruolo della vita nel cosmo? Come ha fatto il nostro cosmo complesso a emergere dando origine a esseri coscienti in grado di riflettere la meraviglia e il mistero della loro esistenza? Sono un privilegiato per aver trascorso gran parte della mia vita impegnandomi con questi problemi”.
E nel libro citato sopra, si era spinto molto in là, proponendo un titolo che suona come un ossimoro: “Prima dell’inizio” (Raffaello Cortina 1998); su questo i filosofi avrebbero (e hanno avuto) molto da dire. Ma dalla sua Rees ha il fatto che non vuole nascondere la sua scarsa preparazione filosofica e, a differenza dell’ex compagno di studi, non pretende di dedurre dalla scienza delle verità generali e assolute sul cosmo e sulla vita.
In più, e soprattutto, c’è il fatto che pur essendo un fisico teorico, di quelli che amano lanciarsi tra gli spazi a dieci dimensioni e che disegnano un’evoluzione cosmica fatta di universi multipli, Rees è un teorico che guarda ai fatti, come gli ha riconosciuto lo stesso Hawking: “gran parte del mio lavoro non è ancora stato confermato dall’osservazione. Martin invece ha sempre lavorato in stretto contatto con le osservazioni e con ciò che esse ci possono raccontare sulla natura dell’universo”.
Chissà se dopo l’assegnazione di un Premio del genere, alla prossima celebrazione liturgica ascolterà ancora il coro del Trinity College pensando che si tratta solo di metafore senza riferimento a un Fatto reale?