«Eventi come il protocollo di Kyoto, lo sviluppo sostenibile, l’Agenda 21, i cambiamenti climatici, la biodiversità, la desertificazione sembrano essere componenti inutili del bagaglio culturale di ognuno o, addirittura, problematiche capaci di generare forme di apprensione, se non di angoscia, per il singolo cittadino e, quindi, da allontanare il più possibile dallo snodarsi dei soliti pensieri quotidiani». È una delle considerazioni principali che ha mosso Piero Gagliardo, professore ordinario di Geografia presso l’Università della Calabria, a raccogliere in un ricco e documentato volume una serie di studi, analisi e riflessioni su “Desertificazione e degrado del suolo” (il volume sarà presentato dopo domani all’Università della Calabria).
Un tema che a livello mondiale offre pesanti motivi di preoccupazione. I terreni fertili che lentamente ma progressivamente si trasformano in aree sterili, rappresentano da un lato la minaccia conseguente all’uso dissennato del suolo rurale; dall’altro solo l’ennesimo sintomo di quella che Gagliardo indica come “dipendenza strutturale” degli esseri umani dai fattori naturali che, se non vengono rispettati, restituiscono risposte negative alle aspettative degli agricoltori.
L’aridità è una naturale caratteristica climatica che interessa, con vari gradi di intensità, il 47% delle terre emerse del Pianeta, con punte che arrivano al 73% in Africa, mentre almeno un milione di persone nel mondo è minacciato dalla fame e dalla sete. Una situazione che aveva portato le Nazioni Unite a convocare nel 1977 a Nairobi la prima Conferenza sulla desertificazione e a iniziare il lancio di una serie di azioni culminate con la promulgazione della “Convenzione per la lotta contro la desertificazione, nei paesi gravemente colpiti dalla siccità e/o dalla desertificazione, in particolare l’Africa”.
Si parla tanto del Protocollo di Kyoto e l’anno scorso è diventata più nota anche al pubblico più vasto la Convenzione sulla biodiversità. Pochi però sanno della Convenzione sulla desertificazione, adottata a Parigi il 17 giugno 1994 ed entrata in vigore nel dicembre 1996.
Il volume, tra le sue quasi 600 pagine, con numerose immagini eloquenti e spettacolari, dà la possibilità di ricostruire le tappe fondamentali di questo percorso e di indicare i criteri alla base delle numerose iniziative in atto. Prive di accenti catastrofistici, ma senza nascondere o minimizzare gli addebiti e le responsabilità. Viene ricordato, ad esempio, che l’attenzione dell’Onu sul problema è stata destata dall’evento tragico della siccità nel Sahel, tra il 1868 e il 1973, con circa 200.000 morti e sette milioni di persone ridotte alla fame. Ebbene, oltre agli agenti naturali, «sembra che la causa principale sia stata la colonizzazione francese del XIX secolo», quando le popolazioni locali hanno perso il controllo del territorio e delle relative risorse idriche.
Il volume propone un ampio approfondimento sulle principali componenti del processo di desertificazione. In primo luogo il suolo, con i vari elementi che ne determinano il degrado, gli strumenti per analizzarlo e le linee per efficaci azioni di protezione. Poi il clima, la cui incidenza è documentata da una serie di banche dati e da una nutrita galleria di indicatori e di cartografie a livello nazionale.
Peraltro, il tema desertificazione sembrerebbe lontano dalla situazione italiana. Gli studi riportati nel volume mostrano invece che si tratta di un problema da non sottovalutare: è stato calcolato che circa il 30% del territorio italiano ha caratteristiche tali da renderlo predisposto al rischio desertificazione. Il processo è piuttosto evidente nelle regioni meridionali e nelle grandi isole, ma potrebbe intensificarsi se non verranno adottate “misure idonee a contenere in modo preciso la progressiva perdita, quasi ovunque irreversibile, di sostanza organica del terreno o il degrado del suolo”.
Come si può intuire, sono molti i motivi di interesse di un’opera il cui intento è quello di informare, documentare e offrire strumenti di approfondimento; e ciò viene realizzato in una modalità innovativa, cioè non superficiale ma al tempo stesso accessibile anche a un pubblico non specialista. Un volume così può diventare uno strumento valido per diversi segmenti di operatori: pensiamo alle varie tipologie di amministratori e gestori dei servizi e dei sistemi di pubblica utilità, o a chi è impegnato in vario modo in azioni educative.
E proprio l’accenno all’educazione segnala l’obiettivo ancor più alto dell’intera opera: quello di contribuire a “far maturare un atteggiamento di profondo rispetto nei confronti della natura, compresa, ovviamente, quella umana”. Il che produce ricadute molto concrete e incisive sul sistema ambientale: «Si usa dire, ritengo in modo appropriato, che il metodo si lettura della realtà discenda dall’educazione nella quale siamo stati formati, da cui prende forma il comportamento del singolo, troppo spesso incapace di esprimere valutazioni critiche nei confronti della realtà fenomenica della natura».
Perciò non sarà solo un optional il confronto con gli “assunti della modernità” che fanno da sfondo della mentalità e degli atteggiamenti con cui viene affrontata la vastità dei temi ambientali. Nell’ultima parte del volume un saggio di Jean Pierre Onorato ne illustra e commenta diciassette, dall’idea di risorse illimitate alla superiorità dell’uomo rispetto ai condizionamenti ecologici, facendo emergere come l’aumento della vulnerabilità del Pianeta sia spesso “figlio della mancata percezione del rischio”.
A questo punto si apre il dibattito su quali siano i nuovi modelli di pensiero adeguati ad affrontare la complessità e l’urgenza delle questioni ambientali, evitando gli estremi di un ottimismo semplicistico e di un allarmismo inconcludente.