Obiettivo delle ricerche sulla fusione termonucleare è la realizzazione di un tipo di reattore nucleare di nuova generazione, che impieghi come combustibili il deuterio e il trizio, isotopi pesanti dell’idrogeno. Fondendosi all’interno del plasma del reattore questi due nuclei danno luogo a un nucleo di elio e a un neutrone libero oltre che, naturalmente, a una cospicua quantità di energia. Il deuterio è presente in piccola percentuale ovunque ci sia idrogeno: ad esempio in un metro cubo di acqua di mare ce ne sono 33 grammi. Il trizio invece è “debolmente” radioattivo (si trasforma in elio dopo una vita media di 17,7 anni) e pertanto non è presente in natura in quantità significative, ma si può fabbricare all’interno del reattore stesso bombardando litio 6 (cioè l’isotopo il cui nucleo contiene 3 protoni e 3 neutroni) mediante i neutroni prodotti dalla reazione stessa. A sua volta il litio è abbondante nella crosta terrestre e nei mari.
Una centrale a fusione in grado di immettere in rete un gigawatt di potenza elettrica funzionerebbe con 20 grammi di trizio e 13 grammi di deuterio all’ora invece che con le 50 tonnellate di combustibile fossile necessarie a una centrale termoelettrica equivalente. Un mix quasi perfetto: abbondante, economico, non inquinante, privo di emissioni di CO2, disponibile a tutti e (almeno per ora) senza accise…
La via per questa vera rivoluzione tecnologica presenta ancora non poche difficoltà, sia scientifiche che tecnologiche. Il passo decisivo cui la comunità scientifica si sta preparando è ITER: sette partner tra i più tecnologicamente avanzati del pianeta (Europa, Usa, Federazione Russa, Cina, Giappone, India e Corea) stanno cooperando alla costruzione di quello che sarà l’esperimento decisivo, integrazione delle conoscenze scientifiche e delle soluzioni tecnologiche fin qui messe a punto. Non si tratta “solo” di dimostrare un principio e di spingere più in là il limite della conoscenza ma di progettare, costruire e far funzionare un dispositivo ad altissime prestazioni che è almeno in parte già orientato all’impiego industriale dei suoi risultati scientifici. E che dovrà servire per trarre indicazioni precise per costruire un vero prototipo industriale. Non si tratta (più) di capire quale forma di energia fa brillare le stelle nel cielo, ma di costruire una stella che si accenda premendo un adeguato numero di pulsanti. Prosaico, ma utile.
L’ambizione di questo progetto e la sua vocazione applicativa non comune nell’ambiente della “Big Science” contribuiscono a spiegare perché non ci si possa più affidare solo a esperimenti in scala ridotta, perché la progettazione e la costruzione di ITER richiedano tanto tempo e tanto denaro, e perché anche aspetti che potrebbero a prima vista sembrare secondari assumono un’importanza fondamentale. La progettazione dettagliata di ITER e la sua costruzione sono accompagnate da una serie di verifiche sperimentali effettuate sui dispositivi esistenti rivolte a ridurre il più possibile i margini di rischio di insuccesso delle soluzioni che si stanno preparando.
Rientra in questa categoria la recente campagna sperimentale effettuata sul JET, il più grande tokamak europeo e mondiale mantenuto in operazione dagli scienziati inglesi del CCFE (Culham Centre for Fusion Energy) sotto l’egida (e il finanziamento) della Commissione Europea. Al JET lavorano fianco a fianco circa 300 scienziati europei che negli ultimi dodici mesi hanno sottoposto a test i materiali della cosiddetta “prima parete”: mattonelle di berillio e di tungsteno (in gergo ILW: ITER-Like Wall) che coprono quasi interamente i 200 m2 della superficie interna del dispositivo e che si affacciano direttamente alle centinaia di milioni di gradi di temperatura del plasma. In ITER la prima parete costituita di questi materiali è progettata per “vivere” 20 anni a 3000 gradi, e non sono molti i materiali in grado di farlo.
Questi due metalli hanno recentemente sostituito in JET il composito di fibra di carbonio, il quale ha ottime proprietà termiche e meccaniche ma in presenza di idrogeno tende a sviluppare una ricca famiglia di reazioni chimiche dando luogo ad idrocarburi. In ITER questi idrocarburi diventerebbero una scorta non controllabile di trizio, qualcosa che per varie ragioni (inclusa la smaltibilità dei materiali alla fine della loro vita attiva) proprio si vuole evitare. Berillio e tungsteno sono chimicamente inattivi e resistono bene all’erosione dovuta all’impatto delle particelle che sfuggono dal plasma. La presenza dei metalli nella parete interna influisce profondamente sul plasma stesso: l’ingresso di impurità ad alto numero atomico (il tungsteno ha 74 protoni nel nucleo e 74 elettroni) cambia la composizione del plasma e tende a “diluirlo”, cioè ad aumentare la distanza media tra i nuclei di deuterio e trizio rendendo più difficoltosa la reazione di fusione.
Da qui l’importanza di effettuare una serie il più possibile esaustiva di test su questi materiali prima di utilizzarli in una macchina ancora più grande e complessa come sarà ITER. I risultati di questo primo anno di operazioni di JET dotato della ITER-Like Wall, effettuate utilizzando un plasma del solo isotopo deuterio, sono positivi: la “cattura” di idrogeno da parte delle pareti è ridotta di almeno dieci volte, e contemporaneamente gli effetti potenzialmente dannosi della presenza di metalli pesanti sono stati mantenuti a un livello accettabile.
Dopo la sostituzione di alcune delle mattonelle metalliche che verranno estratte allo scopo di effettuare dettagliate analisi volte a individuare possibili danneggiamenti microscopici, la campagna di test proseguirà nella primavera del 2013 quando si cercherà di migliorare ulteriormente le prestazioni del tokamak in presenza della ILW. In attesa del test più importante di tutti che comincerà non prima del 2015 quando si utilizzerà vero combustibile nucleare, composto in parti uguali di deuterio e di trizio.