Nei prossimi giorni si saprà quale potrà essere il destino del satellite Kepler e come potrebbe rinascere a nuova vita dopo l’annuncio, nel luglio scorso, del guasto che ha irrimediabilmente compromesso lo svolgimento della missione secondo il programma originario. Gli scienziati della Nasa stanno studiando varie proposte per un proficuo riutilizzo del satellite e a febbraio 2014 l’ente spaziale statunitense deciderà se e quali progetti alternativi finanziare.
Incidenti e disavventure non sono infrequenti nelle missioni spaziali: pochi giorni fa, dal palco del Meeting di Rimini, abbiamo ascoltato gli astrofisici Marco Bersanelli e Nazzareno Mandolesi raccontare i momenti drammatici di non-funzionamenti delle complesse apparecchiature del satellite Planck che sembravano minacciare il naufragio dell’impresa e che invece si sono risolti positivamente permettendo di arrivare alla costruzione delle tanto attese mappe dell’universo primordiale.
Ma cosa è successo al telescopio spaziale Kepler? Il satellite, dedicato alla scoperta di pianeti extra solari (o esopianeti) è (o forse, era) un gioiello di ingegneria: col suo specchio di 1,4 metri e la sua macchina fotografica da 95 Mega pixel era in grado di discernere impercettibili variazioni di luminosità dell’ordine di 10 parti per milione. In tal modo, sfruttando il metodo fotometrico delle mini-eclissi prodotte dal passaggio dell’esopianeta davanti alla stella, poteva individuare una quantità di nuovi “sistemi solari”. Ed è quello che ha fatto dal momento del lancio, nel marzo 2009, ad oggi riuscendo a scovare 2740 candidati al ruolo di pianeta. Nei prossimi anni avrebbe allungato considerevolmente tale lista, arricchendo la nostra conoscenza “geografica” dell’universo.
Invece è successo che prima una (un anno fa) poi una seconda delle quattro ruote giroscopiche stabilizzatrici, necessarie per il suo corretto e preciso funzionamento, si sono guastate a un livello tale da non consentire il loro ripristino. In realtà si sapeva di aver a che fare con un sistema sofisticato e molto delicato, dove erano molteplici i fattori che rendevano impegnativo il controllo a distanza di automatismi di precisione; d’altra parte, come in tutte le missioni, non erano stati risparmiati test severi e ripetuti e i tecnici erano fiduciosi di poter proseguire per alcuni anni.
Ma anche la consapevolezza di non poter avere il dominio assoluto dei sistemi prodotti dall’uomo fa parte (o dovrebbe) del bagaglio culturale di chi è in prima fila nella progettazione e gestione di macchine di questo tipo. Ciò non toglie che si possa sempre pensare a un re-indirizzamento della missione e a un “riciclaggio” delle apparecchiature e della strumentazione. Non sarebbe la prima volta.
Ci sono esempi di recupero e riutilizzo di macchine spaziali. Il più noto è quello del telescopio spaziale Hubble, la cui missione sembrava compromessa dall’accorgersi, poco dopo la messa in orbita, che lo specchio primario di 2,4 metri era affetto da una rilevante aberrazione sferica. Una difficile missione di servizio nel dicembre 1993, ha comunque potuto ristabilire la funzionalità dell’ottica del telescopio. In seguito, nel corso della sua gloriosa carriera Hubble è stato oggetto di altri quattro interventi diretti di “manutenzione” e a 23 anni dal lancio sta ancora svolgendo egregiamente il suo compito immortalando le immagini più spettacolari dell’universo vicino e lontano.
Un altro telescopio spaziale, lo Spitzer, dedicato all’astronomia infrarossa, aveva terminato la sua missione nel 2009, quando l’esaurimento dell’elio impediva di mantenere la temperatura a quei 5,5 Kelvin necessari per quel tipo di osservazioni. Tuttavia il satellite funzionava e così si è deciso di convertirlo a una missione “calda”, cioè a 30 Kelvin, dove i due rivelatori possono svolgere osservazioni nel cosiddetto vicino infrarosso per studiare i dischi proto planetari, le galassie lontane e gli ammassi galattici. Una riprogrammazione delle attività è toccata anche al satellite Wide-Field Infrared Survey Explorer (WISE) che nel 2010 aveva già raggiunto il suo obiettivo, la realizzazione di una mappa completa del cielo nelle frequenze comprese tra i 3 e i 25 micron dello spettro elettromagnetico. Nel 2011 la missione è stata ribattezzata NEOWISE ed è stata indirizzata alla scoperta dei NEO (Near Earth Objects) cioè di asteroidi e comete che popolano il nostro sistema solare.
Adesso tocca a Kepler. Anche con il corredo di ruote stabilizzatrici dimezzato, potrebbe fare molto, dedicandosi a indagini come la ricerca di pianeti giganti attorno a stelle di tipo “solare” o lo studio di buchi neri al centro di galassie lontane; ma anche l’osservazione all’interno del nostro sistema solare può sempre rivelare sorprese, quindi Kepler può puntare il suo occhio sugli altri pianeti e mettersi alla caccia di asteroidi e comete, che tra Mercurio e Plutone non mancano. E quello che ha fatto finora comunque non andrà perduto: molti astrofisici stanno già lavorando sui dati raccolti in questi anni di attività pre-incidente e le scoperte si susseguono.