Nel numero di Nature Communications del 17 dicembre scorso, agronomi e statistici dell’Università del Nebraska-Lincoln mettono in dubbio la capacità delle produzioni agrarie di nutrire la popolazione mondiale in continua crescita, dagli attuali 7 miliardi a 9 miliardi nel 2030. La previsione si basa essenzialmente sull’analisi degli andamenti produttivi di tre cereali, frumento, riso e mais, che da soli hanno costituito la principale fonte calorica nella nutrizione umana (direttamente, o indirettamente tramite il consumo di carne bovina allevata con i cereali) negli ultimi 46 anni in 36 paesi del mondo che ne sono i principali produttori.
Lo studio mette in evidenza che, a partire dagli anni 60 del secolo scorso quando si sono diffuse le nuove varietà di cereali frutto delle innovazioni introdotte dalla rivoluzione verde (cereali a taglia bassa, resistenze a malattie, ibridi), gli incrementi di produttività (quintali di granella prodotti per ettaro per anno) stanno diminuendo e in particolare nelle aree più tecnologicamente avanzate non si sono osservati ulteriori incrementi negli ultimi 8-10 anni. In altre parole i dati analizzati sono compatibili con un modello di crescita delle produttività con un andamento inizialmente lineare che tende a decrescere fino ad arrivare a un plateau. Questo modello contrasta con quei modelli di incrementi delle produttività lineari a tasso costante senza raggiungimento di plateau sui quali si basa la previsione di poter sfamare una popolazione di 9 miliardi nel 2030. Il lavoro citato ci spinge ad alcune riflessioni. In primo luogo è evidente che produzione e produttività sono cose diverse: si potrebbe aumentare la produzione globale di cereali aumentando la superficie coltivata. Questa via però non è facilmente percorribile, sia perché “nuove” aree coltivabili non sono così disponibili per motivi climatici, sia perché comporterebbe conseguenze non positive sull’ambiente (distruzione di foreste ed ecosistemi, pesanti immissioni di gas serra nell’atmosfera, massicci impieghi di acqua ecc.).
Un secondo punto da considerare è da cosa dipende (e da cosa è dipeso storicamente) l’incremento di produttività dei cereali. Nei primi decenni del novecento la produttività del frumento era intorno ai 10 quintali/ettaro/anno e quella del mais circa 20 quintali/ettaro/anno; produttività che erano rimaste invariate per centinaia di anni: poi in poco più di 70 anni la produttività per ettaro/anno è aumentata fino a 70-80 quintali per il frumento e fino a 100 quintali per il mais. Cosa è successo? Questo “salto” produttivo è dovuto sostanzialmente all’introduzione dei concetti della genetica moderna nel miglioramento dei cereali: con la creazione di frumenti e riso geneticamente a taglia bassa che possono essere fertilizzati senza crescere ulteriormente in altezza e cadere poi a terra; con l’introduzione di resistenze a malattie; con l’introduzione, nel caso del mais, degli ibridi che sfruttano il principio dell’incrocio tra linee parentali selezionate per produrre semi ibridi altamente produttivi.
La diffusione planetaria delle nuove varietà ha prodotto incrementi annuali di produttività iniziali molto elevati che, come era da attendersi, sono andati successivamente a decrescere, man mano che si è andata saturando la produttività potenziale delle nuove varietà. Questo andamento delle produttività “a salti” non è una novità nella storia delle produzioni agrarie (come è stato documentato nella mostra “Naturale, artificiale, coltivato” presentata all’ultimo Meeting di Rimini). L’introduzione dei fertilizzanti chimici, della rotazione cereali-leguminose e, ancor prima, l’invenzione dell’aratro trainato da animali domesticati, fino ai primordi dell’agricoltura con la coltivazione di frumenti tetraploidi e esaploidi e di riso che non rilascia i semi a maturità (riso che non “croda”), sono solo alcuni degli esempi di innovazioni che hanno prodotto decisivi”salti” produttivi.
Quindi modelli di incrementi di produttività lineari che raggiungono un plateau sono validi solo per periodi limitati di tempo fino a che innovazioni scientifiche e tecnologiche aprono nuovi cicli di espansione. Il problema vero quindi è se abbiamo raggiunto o no la massima produttività possibile dei cereali e ulteriori incrementi non sono più possibili su una base strettamente biologica. I fattori determinanti da prendere in considerazione qui sono essenzialmente l’efficienza e la capacità di utilizzo della luce solare da parte delle piante, la temperatura e la disponibilità di acqua e di CO2. Su base energetica l’efficienza attuale di utilizzo dell’energia solare da parte delle piante coltivate si aggira attorno al 4-5% : ciò vuol dire che l’energia c’è e invece è la macchina, cioè la pianta, che non la utilizza al meglio. È possibile aumentare l’efficienza e in che modo? Alla prima domanda la natura stessa ha dato una risposta: esistono piante che utilizzano la radiazione solare in modo più efficiente degli attuali cereali.
Ad esempio l’Echinochloa polystachya, pianta della foresta amazzonica, produce 100 quintali di sostanza secca/ettaro anno, un valore circa 4 volte più elevato del mais (granella più parte vegetativa) e, nei nostri ambienti, l’Arundo donax quasi il doppio del mais. Ma anche in merito alla seconda domanda abbiamo una risposta: la più elevata produttività dell’Arundo donax dipende dalla disposizione nello spazio delle foglie tale per cui la luce solare incidente è totalmente intercettata. Inoltre, come hanno dimostrato Stephen Long e colleghi in un famoso articolo del 2006 su Plant, Cell and Environment, introducendo nelle specie coltivate diverse funzioni della fotosintesi primaria e dell’assimilazione della CO2 più efficienti e che sono presenti in natura in diversi organismi, il potenziale produttivo delle specie coltivate potrebbe aumentare del 100%.
Cosa possiamo concludere allora dopo queste riflessioni? La conclusione è che potremo nutrire una popolazione mondiale in aumento solo se saremo in grado di compiere nuovi “salti” tecnologici; e la capacità tecnologica è a nostra disposizione utilizzando i metodi tradizionali del miglioramento genetico, ma sopratutto sfruttando ciò che in larga parte avviene già in natura e cioè il trasferimento orizzontale interspecifico di materiale genetico e che oggi siamo in grado di fare in modo efficiente e preciso con le piante modificate tramite ingegneria genetica (i cosiddetti OGM). È possibile che i tempi dell’innovazione non siano sufficienti a garantire “salti” produttivi tali da soddisfare il fabbisogno alimentare della popolazione del pianeta e quindi si dovranno espandere transitoriamente le superfici coltivate; ma non si potrà assolutamente abbandonare la via maestra che ha guidato per millenni lo sviluppo delle produzioni agricole e cioè la ricerca e l’innovazione tecnologica.
Infine, non possiamo dimenticare che oggi al mondo ci sono 1,5 miliardi di persone obese o sovrappeso a fronte di 870 milioni che soffrono la fame: bisogna allora ripartire dall’educazione, perché “l’uomo educato” coltiva e trasforma i frutti della terra in cibo, in amicizia con sé stesso, con gli altri uomini e con la natura. Un primo passo è ridurre il consumo di calorie e di carne nei paesi che più ne fanno uso, cioè i paesi ricchi, con benefici sia per le persone (la riduzione delle calorie assunte comporta una vita più sana), sia per l’ambiente. Infatti, per fare 1 kg di carne, occorre alimentare i bovini con circa 10 kg tra cereali e soia che potremmo consumare direttamente noi; e poi ridurre gli sprechi e le perdite: nei paesi ricchi circa il 30% dei prodotti alimentari viene sprecato (lungo la catena di distribuzione, nelle mense e in casa), mentre nei paesi poveri, un’aliquota consistente di derrate alimentari si perde nel campo e nei granai a causa di predatori e cattive condizioni di immagazzinamento.