All’apertura della COP21 (Conferenza delle Parti) oggi a Parigi, molti dei 25mila delegati avranno senz’altro già letto il discorso tenuto giovedì scorso, in spagnolo, da Papa Francesco nella sede di Nairobidell’UNEP (United Nations Enviroment Programme) e dell’UN-Habitat (United Nations Human Settlements Programme): un discorso che contiene un forte invito a che il summit parigino possa portare « a concludere un accordo globale e trasformatore» sulla questione dei cambiamenti climatici.
Probabilmente avranno anche letto l’Enciclica Laudato sìe non avranno dimenticato, si spera, le valutazioni critiche contenute nel capitolo quinto circa i Vertici mondiali che hanno preceduto questa 21esima e che non erano riusciti a rispondere alle aspettative e alle promesse della vigilia. In effetti il giudizio del Papa sull’insieme di questi Vertici è piuttosto tranchant: «i Vertici mondiali sull’ambiente degli ultimi anni non hanno risposto alle aspettative perché, per mancanza di decisione politica, non hanno raggiunto accordi ambientali globali realmente significativi ed efficaci» (n. 166).
Ma sono altrettanto implacabili i singoli bilanci di alcuni di questi eventi ritenuti tra i più importanti. Come i due svoltisi a Rio de Janeiro. Il primo, nel 1992, pur partendo dalla solenne dichiarazione che «gli esseri umani sono al centro delle preoccupazioni relative allo sviluppo sostenibile» e pur essendo stato «veramente innovativo e profetico per la sua epoca, gli accordi hanno avuto un basso livello di attuazione perché non si sono stabiliti adeguati meccanismi di controllo, di verifica periodica e di sanzione delle inadempienze» (n.167).
Il secondo, vent’anni dopo, denominato infatti Rio+20, ha fatto registrare progressi “deplorevolmente molto scarsi” relativamente alla minaccia dei cambiamenti climatici: è stata emessa “un’ampia quanto inefficace Dichiarazione finale” e la causa di tale inefficacia è dovuta principalmente alle «posizioni dei Paesi che privilegiano i propri interessi nazionali rispetto al bene comune globale». Come Papa Francesco osserva chiaramente, «la riduzione dei gas serra richiede onestà, coraggio e responsabilità, soprattutto da parte dei Paesi più potenti e più inquinanti» e non manca di avvertire che «quanti subiranno le conseguenze che noi tentiamo di dissimulare, ricorderanno questa mancanza di coscienza e di responsabilità» (n. 169).
Che i problemi dell’ambiente vadano considerati su scala globale è ormai una considerazione diffusa; ma lo è più come analisi che come impegno propositivo. È abbastanza affermata la consapevolezza di una forte interdipendenza dei molti elementi naturali che giocano in un ecosistema e dei nessi tra questi e i fattori economici, sociali e culturali: non è difficile capire che certi stili di vita, certe forme di produzione e di consumo hanno conseguenze negative su tutto il Pianeta; ben più ardua però sembra l’impresa di avanzare e concretizzare «proposte a partire da una prospettiva globale e non solo in difesa degli interessi di alcuni Paesi».
Questo scollamento tra analisi e impegno per la “casa comune” va di pari passo con la contraddizione tra la rapidità dello sviluppo tecnologico e la lentezza con la quale si elaborano le forme di gestione economica e commerciale dei sistemi ecologici ed energetici. Un esempio, citato nell’Enciclica, è quello della compravendita di “crediti di emissione” che sembrerebbe una soluzione rapida e facile al fine di ridurre l’emissione globale di gas inquinanti ma in realtà si rivela non adeguata all’entità del problema; anzi, osserva Papa Francesco, « può dar luogo a una nuova forma di speculazione e può diventare un espediente che consente di sostenere il super-consumo di alcuni Paesi e settori».
Quello dello squilibrio e della disparità tra le diverse situazioni nazionali e regionali è uno dei nodi principali da sciogliere e sarà anche uno dei punti chiave del buon risultato dei lavori della COP21 che, lo ricordiamo, vede partecipare con pari dignità rappresentanti di quasi 200 Paesi. Lì si vedrà se il messaggio della “ecologia integrale”, lanciato nella Laudato sì, ha iniziato a far breccia e a determinare un inizio di quella “conversione ecologica” senza la quale nessuna regolamentazione o accordo internazionale potrà dare frutto.
Bisognerà vedere se i delegati a Parigi, e le organizzazioni che rappresentano, avranno il coraggio di alzare il tiro degli obiettivi della Conferenza e sapranno integrare nella loro roadmap tutti e tre gli obbiettivi, complessi e al tempo stesso interdipendenti, indicati da Papa Francesco nel discorso di Nairobi: la riduzione dell’impatto dei cambiamenti climatici, la lotta contro la povertà e il rispetto della dignità umana. Sarebbe la traduzione simultanea del criterio dell’ecologia integrale e mostrerebbe l’inizio di una nuova strada, dove “l’economia e la politica sono al servizio dei popoli” e dove “l’essere umano, in armonia con la natura, struttura l’intero sistema di produzione e distribuzione”.
Non è solo una questione di buona volontà. Il Papa non solo ha proposto il triplice obiettivo ma ha anche suggerito un metodo: quello del dialogo. Nel citato quinto capitolo della Laudato sì, dopo aver dichiarato che «Chiesa non pretende di definire le questioni scientifiche, né di sostituirsi alla politica» e nella consapevolezza che su alcune questioni relative all’ambiente è difficile raggiungere un consenso, Francesco «ad un dibattito onesto e trasparente, perché le necessità particolari o le ideologie non ledano il bene comune» (n. 188); è significativo che i cinque paragrafi che dettagliano le “linee di orientamento e di azione” contenute nel capitolo, riportino tutti la parola dialogo.
Vedremo nei prossimi giorni se i responsabili e i rappresentanti delle nazioni sapranno applicare realmente e realisticamente questo metodo.