Si chiama Nanomib ed è il Centro interdipartimentale di Nanomedicina inaugurato martedì scorso presso l’Università di Milano-Bicocca e costituito per promuovere lo sviluppo di modelli, tecniche e strumenti da impiegare nella nanomedicina. Si tratta di una consistente piattaforma tecnologica che ha tutti i numeri per progettare e realizzare nanodevice ad uso biomedico da validare attraverso studi preclinici fino alla sperimentazione clinica. Il Centro, pur non essendo il primo nel settore, è un unicum per la sua capacità di mette insieme diverse aree di ricerca e le competenze di 61 ricercatori di Milano-Bicocca per realizzare nuovi modelli di cura e di prevenzione nell’ambito della terapia, della diagnostica e della rigenerazione tissutale. Abbiamo incontrato Massimo Masserini, docente di Biochimica e direttore di Nanomib e, oltre a una descrizione del nuovo centro, è stato inevitabile chiedergli un aggiornamento circa le ricerche sulla malattia di Alzheimer, nelle quali è direttamente coinvolto col suo gruppo e attraverso la partecipazione a progetti internazionali.
Ci sono già in Italia e anche in Lombardia centri di nanomedicina: che necessità c’era di aprirne un altro?
Mi sentirei di rispondere così: la missione del nostro centro di Nanomedicina è diversa e complementare rispetto agli altri. Qui abbiamo una struttura che è unica, nel senso che abbiamo le competenze, che possono andare dalla ideazione, alla progettazione, alla realizzazione alla caratterizzazione, dimostrazione di efficacia, dimostrazione in vivo su modelli animali, fino alla fase clinica. E sono tutte concentrate in Bicocca che, pur essendo un’università piccola, ha tutte queste competenze, distribuite nei diversi settori disciplinari: chimica, biochimica, biologia, fisica, scienza dei materiale; in quest’ultimo campo faccio notare che in Bicocca abbiamo l’unico Dipartimento presente in Italia. Il nuovo centro Nanomib mette insieme persone che sono già coinvolte nella nanomedicina e sono già anche collegati tra loro, costituiscono già una rete. Quindi esiste già una piattaforma che è in grado di raccogliere un’idea di un nanodevice per applicazioni terapeutiche, diagnostiche e di medicina rigenerativa e portarla fino alla fase clinica. In realtà mancherebbe ancora un tassello…
Quale?
Bisogna considerare che per arrivare alla fase clinica servono delle operazioni che si fanno esternamente attraverso società autorizzate a rilasciare certificati: sono le CRO (Organizzazioni di Ricerca a Contratto). Però il nostro Ateneo sta dimostrando un grande impegno nell’avviare delle spin-off e questo aspetto potrà quindi essere coperto da qualcuna di queste: ce ne sono già due in fase iniziale e riguardano materiale nano tecnologico per la diagnostica e la terapia. Perciò possiamo dire che questa nostra piattaforma è completa.
Lei ha menzionato tre aree di applicazioni di nanomedicina: terapeutiche, diagnostiche e di medicina rigenerativa. A che punto sono le ricerche in queste aree?
Ci sono dei settori che sono più avanzati. Uno è quello terapeutico per la malattia di Alzheimer: qui abbiamo raggiunto una dimostrazione sull’animale dell’efficacia di certe nanoparticelle per la cura della malattia e si sta avviando una spin-off per portarle in fase clinica. In campo diagnostico, posso citare il caso di un’evidenza già raggiunta dell’impiego positivo di nano particelle in campo tumorale; anche qui è in atto la costruzione di una spin-off.
E per la medicina rigenerativa?
Qui dobbiamo parlare delle tecniche di rigenerazione tissutale che in questo momento si stanno indirizzando anche verso la rigenerazione neuronale. Stiamo organizzando una cordata per partecipare a un bando europeo per lo sviluppo di materiali per la rigenerazione neuronale, anche in questo caso nell’ambito della malattia di Alzheimer.
Quindi avete una particolare specializzazione nel campo neuronale….
Sì, abbiamo anche un’intensa attività in collegamento con i principali centri e istituti di neuroscienze nelle altre università.
Ha accennato alle nanoparticelle per la cura dell’Alzheimer. Di che si tratta?
Personalmente ho coordinato un progetto europeo che è durato cinque anni ed era indirizzato alla ideazione di nanoparticelle per la terapia della malattia di Alzheimer. Il progetto comprendeva 19 partner in tutta Europa e l’abbiamo sviluppato su tre linee, studiando tre tipi di particelle. Devo dire che delle tre, quelle che hanno funzionato sono state quelle uscite dal nostro gruppo in Bicocca, ovviamente in collaborazione con gli altri partner europei.
E che cosa avete trovato?
Abbiano pubblicato da poco due articoli dove si mostra la capacità di queste particelle di rimuovere la placca che induce l’Alzheimer; questo nell’animale transgenico utilizzato per la sperimentazione. La placca è in pratica il peptide di beta-amiloide che si accumula nel cervello ed è ormai chiaro che è questa, anche nell’uomo, la causa della degenerazione. Ciò che ancora non si sa è perché se ne forma così tanto; qualcosa si può dire solo per la forma genetica dell’Alzheimer, ma questa rappresenta solo un 10% dei casi. Noi comunque abbiamo trovato il modo di rimuoverlo. Inoltre abbiamo dimostrato che il trattamento con queste particelle è anche in grado di ripristinare le funzioni cognitive: cioè, topi che perdono la memoria a causa dell’Alzheimer, dopo questo trattamento la recuperano.
Dalla sperimentazione sull’animale poi si passerà all’uomo: quando?
Il passaggio dall’animale all’uomo non è così semplice. Ci sono anche esempi recenti di clinical trial che suscitavano grandi promesse e poi nel passaggio sull’uomo o non hanno funzionato o hanno provocato effetti collaterali inaccettabili. Nel nostro caso dobbiamo affrontare la fase preliminare della certificazione di cui parlavo prima, per attestare la stabilità, la possibilità di produzione su grande scala e così via; ma è una fase molto costosa, si parla di qualche milione di euro. Quando poi si passerà all’uomo ci vorranno altri dieci milioni di euro. L’unico modo per sviluppare tutto questo è creare una spin-off e cercare dei finanziamenti; ed è quello che stiamo facendo.