Molto spesso, gli studi scientifici cercano di approfondire degli aspetti della vita quotidiana al fine di elaborare nuove metodologie per garantire una vita più lunga e più sana, all’umanità. Molto spesso, però, è stato osservato quanto la medicina e la scienza occidentali abbiano l’abitudine di soffermarsi più di frequente su aspetti puramente materiali dell’esistenza: ad esempio, si cerca di curare una malattia debellandone l’origine, spesso però a scapito della qualità della vita del malato. Nella cultura orientale, invece, ciò che viene sempre messo al primo posto è il benessere della persona: in sostanza, non importa tanto curare la malattia, quanto il malato, facendo in modo che sia sereno, che viva tranquillamente, e che, anche nel momento in cui dovesse aver contratto un male incurabile, sia in grado di conviverci senza particolari problematiche o fastidi. Forse memori dell’insegnamento che viene dall’oriente, due studiosi di un’istituto americano, il Brigham Young University, che si trova nello stato dello Utah, hanno deciso di portare avanti un singolare studio, che per una volta non si interessa di bacilli, tumori o virus, ma della solitudine. Gli studiosi in questione sono Julianne Holt-Lunstad e Timothy Smith, che non hanno affrontato la problematica della solitudine da un punto di vista psicologico, e nemmeno sociale, ma solo da un punto di vista puramente biologico. Rifacendosi ad una serie di indagini condotte in un periodo compreso tra il 1980 e il 2014, per un totale circa di 150 casi, la conclusione a cui sono giunti è sorprendente. Infatti se, in linea di massima, la tendenza ad isolarsi rispetto ad un consesso sociale viene considerata negativamente, e tende ad essere condannata, fino ad ora non era comunque stato dimostrato che potesse nuocere gravemente alla salute. Invece, lo studio condotto ha dimostrato proprio che gli effetti di un eccessivo isolamento si possono paragonare ad altre deprecabili abitudini, la cui ricaduta negativa sulla salute è già da molto tempo conclamata. Nello specifico, pare che stare soli faccia male all’organismo tanto quanto fumare 15 sigarette, soffrire di obesità, o essere dipendenti dalle bevande alcoliche. Scendendo più nel dettaglio degli studi condotti, bisogna sottolineare che lo studio non va ad indagare la qualità dei rapporti umani in questione: non essere soli può anche semplicemente voler dire avere dei nemici. Ad ogni modo, qualunque tipo di rapporto umano sembra meglio che non averne affatto. Nello studio, però, si specifica che si deve trattare di rapporti reali e non virtuali: per intenderci, la rete di amici presenti in Facebook, o altri social network, non fa minimamente testo. Va da sè che i rapporti affettivi di amore, amicizia e parentela, sono quelli che hanno un effetto maggiormente positivo sulla salute, per un motivo che tutto sommato è facilmente intuibile. Quando si hanno delle perone intorno che tengono a noi, e a cui noi teniamo, si ha maggiore cura di se stessi, sia da un punto di vista meramente estetico, che dal punto di vista della salute. Per quanto i risultati dello studio di Smith e Holt-Lunstad potrebbero anche sembrare poco rilevanti, nel senso che è opinione comune, in ogni caso, che è meglio avere compagnia piuttosto che stare soli, in realtà aprono tutto un nuovo capitolo per la scienza medica. Quello che è stato dimostrato infatti non è solo la generica convinzione per cui la solitudine sia uno stato non auspicabile: si è dimostrato che la solitudine può accorciare l’aspettativa media di vita di un soggetto di ben sette anni. Chi tende ad isolarsi, ovvero, ha il 30 per cento di possibilità in più di ammalarsi e di morire. Questo appare un motivo in più per cominciare a ragionare, anche in ambito medico, in termini diversi. Le malattie possono realmente avere origine non da cause meramente fisiche, ma più profonde, e forse quindi avere maggiore cura delle anime, oltre che dei corpi, dei pazienti, potrebbe dare risultati davvero inattesi e straordinari.