La reazione di un geologo che venga a trovarsi non lontano da un evento sismico è, per certi versi, simile a quella di tutti noi: preoccupazione, pensiero che va alle eventuali vittime, interrogativi profondi. Per altri versi c’è una maggior consapevolezza del problema e una quantità di conoscenze che consentono di inquadrare meglio la situazione ed evitare allarmismi ingiustificati.
È successo ieri sera al professor Enrico Bonatti, che abbiamo incontrato presso i laboratori dell’Infn (Istituto nazionale di fisica nucleare) al Gran Sasso. Bonatti è uno dei più affermati geologi italiani: dopo la laurea a Pisa e il diploma della Scuola Normale Superiore, si è trasferito negli Usa, prima a Yale, poi in California, allo Scripps Institution of Oceanography, poi a Miami e dal 1975 è alla Columbia University (New York) al Lamont Doherty Earth Observatory. Ha passato anche alcuni periodi in Italia, dove è stato direttore dell’Istituto di Scienze Marine del Cnr.
Il tema principale delle sue ricerche è la geologia degli oceani: ha condotto numerose spedizioni oceanografiche negli oceani Pacifico, Atlantico, Indiano e peri-Antartico, nei mari circum-Artici, nel Mar Rosso e nel Mediterraneo ed è sceso più volte sul fondo dell’Atlantico con i sommergibili da ricerca Alvin e Nautile fino a 5.600 metri sotto al livello del mare. È quindi abituato a confrontarsi con le stranezze e la grandiosità dei fenomeni naturali. Ma il terremoto è sempre il terremoto.
“Devo dire che, insieme allo sgomento e al dolore, chi vive questi eventi dall’interno di una disciplina come le scienze della terra prova un sentimento di calma e rassegnazione. Anche perché noi geologi, ma oggi un po’ tutti, sappiamo che i terremoti sono fenomeni assolutamente necessari per l’evoluzione di un pianeta come il nostro: per l’evoluzione geologica naturalmente, ma anche per quella biologica, nel senso che se non ci fossero i terremoti non ci sarebbe la vita. Ci sono tra l’altro una varietà di fenomeni sismici, che sono alla base dei più generali movimenti della crosta terrestre i quali hanno avuto un ruolo fondamentale nell’evoluzione del pianeta: ci sono terremoti nei fondali oceanici, nelle fosse di subduzione. Questo ovviamente non minimizza la portata drammatica di quanto sta avvenendo in Centro Italia”.
Bonatti sta seguendo con apprensione le notizie che arrivano dalle zone colpite e ricorda di essersi trovato coinvolto in uno dei più potenti terremoti dell’ultimo secolo, forse il secondo terremoto mai registrato, quello del 1964 in Alaska, della magnitudo di 9,5 della scala Richter: allora viveva in California e in piena notte dovette abbandonare la sua abitazione in prossimità della spiaggia per il timore di uno tsunami, che poi non si verificò lì, ma fu devastante più a nord.
L’apprensione per la situazione italiana è comunque giustificata: “il nostro Paese è particolarmente fragile e a rischio proprio per come è fatto è per la natura delle forze che hanno modellato e continuano a modellare il suo territorio. Quindi sono fenomeni che continueranno e non ci abbandoneranno. Bisogna che ci rendiamo conto che la nostra Penisola si è originata anche per mezzo dei terremoti: l’Appennino è nato a forza di terremoti. La situazione è così oggi e sarà così nel futuro prossimo (geologicamente parlando, che non vuol dire dopodomani). È un fatto col quale dobbiamo convivere. Ma qualcosa dobbiamo e possiamo fare: fare in modo che le conseguenze negative per l’uomo siano ridotte al minimo”.
Ma è possibile? “Credo di sì. Si tratta di fare uno sforzo, come hanno fatto altri Paesi come il Giappone, per rendere le costruzioni che ci ospitano meno vulnerabili possibile a un terremoto anche intenso. Bisogna fare uno sforzo molto più energico di quanto fatto finora”.
Sull’annoso dibattito circa la previsione degli eventi sismici, Bonatti ribadisce quanto da sempre la comunità scientifica afferma: “la previsione dell’ora e del luogo del sisma è impossibile”. Ci sono programmi di ricerca che tentano di arrivare a stabilire in anticipo il possibile disastro, ma finora senza risultati apprezzabili. “Sappiamo dire che in Appennino ce ne saranno, o che nella Germania centrale ce ne saranno molto pochi o che in California saranno molti. Sappiamo anche, e stiamo capendo sempre meglio, perché qui ce ne sono molti e là pochi. E non sono informazioni inutili: servono per pianificare intelligentemente gli interventi di prevenzione e dove concentrare gli sforzi. Posso anche dire che mi sembra che qualcosa si sia fatto anche da noi, ma bisogna fare ancora di più: serve un impegno intenso e radicale, non più rinviabile”.