Che cosa è successo dopo l’accordo stipulato a Parigi nel dicembre scorso da 190 Paesi al termine della COP21, la Conferenza delle parti sul Clima? C’è qualche possibilità che le decisioni e gli impegni assunti possano produrre gli effetti desiderati, contrastando il fenomeno del riscaldamento globale e avviando una nuova modalità di gestione dei problemi ambientali ed energetici? In realtà l’accordo non è ancora stato ufficialmente ratificato: lo sarà, si spera, fra due mesi quando, dopo la firma di almeno 55 paesi che rappresentino il 55% delle emissioni di gas serra, il protocollo potrà entrare in vigore a tutti gli effetti.
In questi mesi si sono intensificate le analisi e gli approfondimenti del documento, per capirne meglio le portata e le implicazioni a livello economico, tecnologico e politico, sia a livello dei singoli stati che in ambito più locale. Per la situazione italiana un interessante momento di analisi e confronto, il primo praticamente nel nostro Paese, è stato proposto nei giorni scorsi a Milano da EnergyLab, Fondazione Aem e Arpa Lombardia, facendo emergere prospettive, criticità ma anche opportunità.
Un esempio, apparentemente minimale, può essere assunto come emblematico proprio per segnalare una linea di sviluppo che potrebbe essere positivamente avviata ma che rischia di essere vanificata per una visione limitata e per mancanza di iniziativa nel seguire i cambiamenti in atto. Lo ha descritto Luigi De Paoli, dell’Università Bocconi, mostrando i dati relativi all’impatto delle detrazioni fiscali per l’efficienza energetica negli ultimi otto anni e facendo notare come quasi la metà di tale valore è dovuto alle nuove finestre e infissi installati, in buona parte realizzati in plastica. Se si esamina l’interscambio di questi beni negli stessi anni, si vede che è sensibilmente peggiorato: da quando è entrato in vigore il decreto sulle detrazioni, c’è stato un forte aumento dell’import e una diminuzione dell’export. «Quindi il nostro sistema produttivo, che avrebbe potuto avvantaggiarsi della nuova situazione, non ne ha saputo approfittare; come peraltro era già accaduto anche per le energie rinnovabili».
È solo un caso particolare. Ma può suggerire un atteggiamento col quale affrontare il tema dei cambiamenti climatici. Atteggiamento che qualcuno durante il dibattito ha definito proattivo, in grado cioè non solo di reagire alle nuove condizioni ma, in qualche misura di anticiparle e di volgere in opportunità quelli che potrebbero sembrare dei limiti. La stessa modalità con la quale si è arrivati all’accordo ha messo in campo un modo nuovo di impostare il processo decisionale: dalla logica top-down, che aveva portato all’impasse nella precedente COP di Copenhagen, si è passati a un approccio più dal basso che ha permesso di conseguire quello che il Presidente della Fondazione Aem Alberto Martinelli ha considerato come “un successo relativo”.
In effetti, quasi tutti i Paesi hanno aderito al documento conclusivo e c’è stato un generale riconoscimento che siamo in un’epoca diversa, di evoluzioni rapide, dove le cause antropiche dei cambiamenti non sono più trascurabili. Invece di puntare su limiti di emissione assegnati ai singoli Paesi, si è preferito far sì che ogni Paese presentasse la sua “Nationally Determined Contribution” (NDC), decisa autonomamente ma corredata con un piano di azione per conseguirla (aggiornabile ogni cinque anni). L’adattamento non è più stato trattato come il segno del fallimento della mitigazione ma va inserito nei piani di azione su un piede di parità con la mitigazione; anche gli aiuti finanziari dei Paesi sviluppati dovranno riguardare non solo la mitigazione, ma anche l’adattamento.
La relatività del successo è comunque facilmente constatabile. Proprio perché i mutamenti sono così veloci, come le indagini scientifiche continuano ad attestare, bisogna ammettere che si fa ancora troppo poco. C’è il grosso nodo del controllo dei risultati delle azioni attuate: a chi spetta, chi ha gli strumenti adeguati per farlo, in modo efficace e riconosciuto? La forma data alla dichiarazione finale della COP21 non facilita certo il superamento dei molti ostacoli posti alla sua attuazione: «è un accordo poco chiaro giuridicamente», come ha spiegato Massimo Beccarello, dell’Università di Milano-Bicocca.
«I critici possono comunque dire – ha osservato ancora De Paoli – che si parte male perché l’affermazione che l’accordo ha l’obiettivo di non superare i 2 °C è falsa: gli INDC presentati, anche se pienamente attuati, non consentiranno di raggiungere tale risultato, sulla base dei modelli climatici attuali». Anche per quanto riguarda l’adattamento, resta «aperta la questione di capire meglio quali misure di adattamento sono considerate utili o necessarie».
Tra i fattori che potranno frenare le azioni efficaci conseguenti gli accordi di Parigi c’è anche la preminenza tuttora attribuita a ai governi centrali: il loro è ancora il ruolo principale e troppo poco è il peso assunto dagli altri attori. Come, ad esempio, le regioni. Ci si può chiedere se il celebre principio “Pensare globale ma agire locale”, più volte rilanciato dal segretario dell’Onu Ban Ki Moon in vista della COP21, potrà essere applicato.
Alcuni però ci stanno provando. Come Regione Lombardia che, col supporto della FLA (Fondazione Lombardia per l’Ambiente) aderisce al Climate Group e sta predisponendo un Piano di adattamento ai cambiamenti climatici. E non sono poche le Regioni che hanno sottoscritto il protocollo “Under 2° MOU” (Subnational Global Climate Leadership Memorandum of Understanding), col quale si impegnano volontariamente a contrastare il cambiamento climatico attraverso la riduzione delle emissioni climalteranti prodotte e l’adozione di misure di adattamento.
Vedremo se la ratifica del 22 aprile prossimo darà un’ulteriore spinta a tutte queste azioni; poi si potrà fare un primo bilancio in dicembre a Marrakech, alla COP22.