Un po’ di anni fa era uscito un libro intitolato Internet ci rende stupidi?, che era una domanda retorica, perché era chiaro che l’autore pensava di sì. Mi ricordo però che aveva ricevuto molte critiche, era stato ritenuto quasi pseudoscienza. Invece, mi sembra che adesso le cose stiano cambiando e molti scienziati cominciano a dire che forse, almeno in parte, questo è vero.
Io mi occupo di età evolutiva, che è un’età in cui noi diamo forma e struttura al nostro funzionamento mentale. Per costruire il nostro funzionamento mentale, che vuol dire generare connessioni e reti neuronali, le due dimensioni che abbiamo a disposizione sono le relazioni e le esperienze. Quindi le relazioni che viviamo e le esperienze che facciamo sono un po’ come andare in palestra: le macchine a cui mi alleno potenzieranno certi gruppi muscolari e non altri.
Analogamente, se io entro nella vita virtuale e i miei funzionamenti cognitivi sono poco ingaggiati, mentre i miei funzionamenti emotivi sono molto attratti da quello che mi viene proposto, quello che accade è che il mio cervello rinforza tantissimo alcuni aspetti legati ai funzionamenti emotivi e non si allena abbastanza nei funzionamenti cognitivi.
Un esempio tipico può essere se io mi muovo da bambino o da ragazzo usando sempre il navigatore: non mancherò mai il traguardo, ma non acquisirò mai la competenza sul percorso e quindi non avrò abilità di orientamento e competenze viso-spaziali, perché ogni volta che devo andare in un posto non guardo il mondo, ma guardo lo schermo. Così il mio cervello perderà uno slot che è in una fase specifica, cioè certe cose le imparo e le plasmo solo in età evolutiva, perché è lì che genero le reti neuronali che poi sosterranno quella funzione.
Nella tavola ronda al Meeting di Rimini 2024 avete citato parecchi studi, ma lei ha parlato anche della sua esperienza diretta, da cui si vedono le conseguenze di tutto questo. Può dirci qualcosa al riguardo?
Sì, ci sono evidenze che in questo momento abbiamo i peggiori indicatori di salute mentale che si siano mai avuti negli ultimi cinquanta o settanta anni in termini di ansia, depressione, disturbi del comportamento alimentare, comportamenti autolesivi. E abbiamo una cosa mai vista prima, che è la sindrome da ritiro sociale: cioè, i ragazzi, proprio nel tempo della vita in cui sei più predisposto ad avere il desiderio di andare fuori nel mondo, di conoscere gli altri, in realtà stanno ritirati e rinchiusi nell’unico luogo in cui non dovrebbe stare un adolescente, cioè la propria cameretta. E non vogliono uscire da lì, perché lì è come se ci fosse un parco giochi sempre attivato.
Questi sono cambiamenti epocali e generazionali che devono farci riflettere. Forse non ci siamo accorti di alcune cose, forse l’entusiasmo per l’aspetto tecnico non ci ha fatto mettere a fuoco bene quali sono i bisogni in età evolutiva e soprattutto forse la nostra mente per rimanere sana e strutturarsi bene in età evolutiva ha bisogno di stimolazioni ed esperienze completamente diverse da quelle che oggi sono disponibili e che stanno ancora crescendo.
La connessione con lo sviluppo digitale innanzitutto è temporale: tutto questo, infatti, è iniziato più o meno nel momento in cui sono diffusi gli smartphone, che hanno avuto un impatto pervasivo. Ma, al di là di questo, c’è anche il modo in cui funziona, perché per esempio molti dicono che è solo questione di usarlo bene, anche per usarlo a scuola. Questa è proprio una falsa credenza, come dire che la cocaina basta usarla bene e non ti fa danno. Ma il concetto di addiction è completamente diverso. Un ago punge, però è molto utile e se io ti insegno a usarlo bene riuscirai a usarlo senza pungerti.
Però io non ho mai visto uno che si porta l’ago a letto sotto il cuscino e alle due di notte si deve svegliare perché non può fare a meno di cucire. Se invece un bambino ha Fortnite dentro al suo smartphone, io posso insegnargli a non giocarci più di trenta minuti al giorno, però lui farà di tutto per averlo sotto il cuscino e, quando io dormo, riaccenderlo, perché non può fare a meno di giocare a Fortnite. Ecco, si può educare a gestire bene una dipendenza? La risposta è no: la dipendenza va curata, non può essere educata.
Tutta l’architettura del sistema online è basata sullo stimolare i circuiti dopaminergici.
La dopamina è il neuromediatore biochimico della felicità istantanea e della gratificazione istantanea e ha questo limite: più la produci, più ti chiede di continuare a fare le cose che l’hanno fatta produrre. Quindi interrompere il ciclo dell’attivazione dopaminergica comporta fatiche molto rilevanti e la domanda che dovremmo farci è: se la crescita è uscire dallo stato di dipendenza dall’adulto e generare una propria condizione di autonomia, ma in questo passaggio i ragazzi incontrano qualcosa che li rende dipendenti (perché proprio neurobiotecnicamente è pensato in quel modo), come possono crescere davvero, dato che davanti a ogni cosa si domanderanno: «Però, se faccio quella cosa lì, poi mi perdo la partita del mio videogioco»?
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Alberto Pellai (medico e psicoterapeuta dell’età evolutiva, é ricercatore presso il Dipartimento di Scienze Biomediche dell’Università degli Studi di Milano)
L’intervista è stata rilasciata il 21 agosto 2024 a Rimini durante il 45° Meeting per l’amicizia fra i popoli.