Matteo Renzi ha la sindrome del pirata: gli piace bruciare gli avversari sul tempo, preferisce non dare riferimenti e simula i suoi movimenti, dispone solo di un manipolo di pochi ma fidati collaboratori, disposti a tutto.
In queste ore, mentre prepara l’ennesimo coup de théâtre e la nascita di un partito tutto suo, vorrebbe far credere di essere un corsaro. Insomma lascia intendere – con una certa malizia – di aver in tasca una “lettera di corsa” come quelle che fornivano i sovrani ai pirati di un tempo. Allude, quando parla di “separazione consensuale”, all’esistenza di una sorta di “mandato” a compiere scorribande nel campo nemico, ma nell’interesse della causa comune.
Tutte chiacchiere, tutte balle messe lì per confondere le idee ad un popolo come quello di sinistra che assiste incredulo all’ennesima rottura senza senso.
Renzi è un pirata a tutti gli effetti e come tale andrà trattato. Le sue scorribande nelle agitate acque della politica italiana negli ultimi 7 anni – rileggendole oggi alla luce della sua ultima sortita – hanno avuto un solo comune denominatore: muoversi nella direzione opposta di quella attesa, sorprendere, rompere non rispettando le regole del gioco, nell’unico interesse del proprio tornaconto personale.
Dalla “rottamazione” fino alla giravolta di agosto, che ha sbloccato il governo giallo-rosso e di cui tanto si vanta, ogni suo gesto è interpretabile solo se guardiamo alla reale posta in gioco, brutalmente al bottino che è possibile portare a casa. Mai una riflessione strategica, mai una scelta generosa per promuovere un gruppo dirigente, mai indulgere in noiose disquisizioni teoriche o programmatiche.
Anche i suoi fedelissimi si sono ormai assuefatti e si comportano come una ciurma. Sanno che devono essere sempre più aggressivi del loro capo, sempre pronti all’assalto – ovviamente virtuale e via Twitter – del nemico di giornata, colpevole di una gaffe, di una battuta omofoba, di un commento sessista.
Per cui ora spetta al Pd e al suo ricostituito – grazie a Zingaretti – gruppo dirigente decidere come affrontare quest’ennesima scissione, frutto di una poco edificante lotta di potere.
Intanto bisognerebbe subito rispondere a Renzi con un bel “consensuale al piffero”. È davvero essenziale per la sopravvivenza del Pd recidere chiaramente ogni confusa area di finta collaborazione. Così come sarà fondamentale indicare subito i limiti precisi di una relazione – vista l’appartenenza ad una stessa maggioranza di governo – che non può che essere di dura competizione. Sul piano locale e su quello nazionale. Non dovrà poi essere concesso a Renzi di disporre di una quinta colonna all’interno del Pd. Serve come il pane convocare subito un nuovo congresso straordinario: ci penseranno gli iscritti e i militanti a fare piazza pulita di tutti coloro che vorrebbe stare con due piedi in due scarpe e che vorrebbero rosicchiare fino alla fine tutti gli spazi di agibilità generosamente concessi.
Infine il miraggio del proporzionale. È una concessione che non ha più ragione di essere. Intanto perché sono sempre più forti i segnali di rafforzamento del rapporto Pd e 5 Stelle. Sarà in Umbria o in Emilia-Romagna, ma la nuova maggioranza nata in Parlamento troverà presto conferme anche nel voto popolare. E non si capisce perché si dovrebbe lasciare a Salvini la bandiera del maggioritario, o cosa più importante, quella della governabilità.
Senza una legge proporzionale e senza la clausola del consenso (o se preferite senza la famosa “lettera di corsa”) Renzi ed il suo manipolo non potrà andare da nessuna parte. E il loro peso reale nel paese (il 2 o il 3% al massimo?) li trasformerà in una mera forza di testimonianza, ridotta a compiere – di tanto in tanto – qualche scorribanda alla ricerca di un nuovo bottino.