Giocare a pallone dando pedate ai soldi. In senso metaforico, s’intende: quando sono tanti, anzi troppi, non se ne comprende più il valore e si può benissimo prenderli a calci per fare goal nella porta del proprio conto in banca.
Sandro Tonali (maglia Fiorentina) e Nicolò Fagioli (maglia Newcastle), i due calciatori della nazionale azzurra già condannati in passato per reati simili e da poco “riabilitati” tanto da portare la propria testimonianza anche in giro per le scuole, sono ricascati nelle scommesse – questa volta con un ruolo anche di procacciatori d’affari – e con loro altri dieci colleghi più o meno noti che hanno militato o militano in squadre importanti.
La Procura della Repubblica di Milano li ha messi sotto indagine per scommesse su siti illegali riferiti al 2021-’22. Il sequestro è pari a un milione e mezzo di euro, ma è probabile che possa emergere molto altro (in termini di denaro e di nomi) in un giro d’affari tutto sommato semplice.
I calciatori versavano a due gestori di piattaforme illegali online forti somme di denaro e questi ultimi si facevano “aiutare” o, per meglio dire, si cautelavano attraverso una gioielleria del capoluogo lombardo che funzionava da “banca”: se il calciatore non era in grado di onorare il debito, effettuava un bonifico per acquisto di orologi di lusso che, però, non potevano ritirare ma rimanevano nella disponibilità dei truffatori. Mica cifre da poco: per Fagioli si parla di 693mila euro, per Tonali di 57mila, per il milanista Florenzi di 155mila e così via.
“Tutti i particolari in cronaca” recitava oltre mezzo secolo fa il titolo di un bel film di Ettore Scola che ruotava attorno ad un “dramma della gelosia”. Alla cronaca delle prossime ore ci rimettiamo, ma intanto non possiamo esimerci dal notare che anche in questo caso si tratta di un dramma.
Non è solo quello di chi in queste ore rispolvera il refrain del “calcio malato” o del “calcioscommesse”, forse nel tentativo di confinare il fenomeno, che pure c’entra nonostante gli indagati pare abbiano scommesso non su partite di pallone, ma su altre discipline sportive tipo il tennis.
Sul lettino dell’ospedale, altra metafora, è finito tutto lo sport professionistico, quello dei grandi eventi, degli stadi pieni, delle piattaforme tv a pagamento, dei telecronisti che seguono le gare in plotoni di quattro o cinque di cui almeno tre costretti a fare da comparsa prendendo la parola per interventi del tutto inutili e che si esaltano per un nonnulla, di trasmissioni che iniziano un quarto d’ora prima e terminano un quarto d’ora dopo l’evento, mezzora in più per dire o ripetere ciò che diranno o avevano appena detto durante lo svolgimento della gara e, per tornare sul calcio, della Rai che trasmette in diretta persino la serie C, spesso giocata da squadre della provincia che più provincia non si può, pur di mantenere “lo sport più bello del mondo” perennemente in onda.
Crescono gli sponsor e crescono a livelli impressionanti anche gli stipendi, che magari finiscono nelle residenze di Montecarlo, come per due atleti che per altro ci stanno particolarmente simpatici, Ganna e Sinner, senza che per altro nessuno, suddetti telecronisti compresi, abbia da ridire.
Tutto legale, per carità, tutto lecito. Ma anche tutto triste, perché al di là delle scommesse online – che, ahinoi, sono consentite e inducono nell’indifferenza dello Stato al dramma della ludopatia, come pare nel caso di Tonali e Faglioli –, degli stupendi assurdi, dei guadagni astronomici su cui vive tutto il mondo che organizza e sostiene le competizioni (avete presente i procuratori, dalle cui fortune spesso dipendono anche le fortune dei loro clienti?), lo sport professionistico è malato, perché malata è la società nel suo complesso che lo sostiene e incoraggia.
Con quale esempio per i giovani? Il peggiore, perché se a darlo sono i loro idoli che corrono dietro ad un pallone non ci rimane che una speranza: la squadretta dell’oratorio. Ricominciamo da lì.
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