Nel film "Scomode verità", Mike Leigh racconta con tratti comici ma profondamente compassionevoli le difficoltà delle relazioni familiari che tutti viviamo
Scomode verità, l’ultimo capolavoro del regista britannico Mike Leigh appena uscito nelle sale, ha le caratteristiche di un racconto vero, capace di mettere a nudo i sentimenti nascosti dei personaggi, semplicemente mostrandoceli nella loro vita quotidiana. Ognuno cerca di convivere con le sofferenze che la vita gli ha riservato, ma la protagonista Pansy (mirabilmente interpretata da Marianne Jean-Baptiste), una donna inquieta e segnata da un dolore intimo e soffocato, non riesce a reprimere la sua rabbia e a controllare le sue ansie e le sue ossessioni.
In qualunque situazione, in famiglia, al supermercato, dal dottore o con chi semplicemente vorrebbe il parcheggio che lei sta lasciando, non perde mai l’occasione di reagire lanciando insulti, scatenando gratuitamente tempeste, apparentemente del tutto immotivate.
Assistiamo a scene anche esilaranti, tipiche di una personalità diremmo oggi disturbata, che suscitano imbarazzo in chi la incontra o abita con lei, come il marito Curtley e il figlio ventenne, che subiscono in silenzio le filippiche della donna. Solo la sorella minore Chantelle, allegra, simpatica e positiva, con due figlie con cui sa divertirsi anche se non c’è un marito-padre accanto a loro, sembra in grado di resistere alla furia verbale di Pansy e, anzi, fa di tutto per starle vicina e accompagnarla nella sua sofferenza.
Il bravo regista Leigh in realtà è capace di mostrarci con uno sguardo delicato e partecipe le difficoltà della vita di tutti i personaggi in scena, dal duro lavoro di idraulico del marito di Pansy, che guarda alle ire e ossessioni della moglie senza saper cosa fare, alla vita senza obiettivi dell’indolente e inconcludente figlio bulimico Moses, prigioniero dei suoi videogiochi e dei suoi libri sugli aerei. Lo spettatore stranito, e a tratti divertito, si chiede come una casalinga, con una vita tutto sommato apparentemente accettabile e una bella casa, possa essere così odiosa e respingente con tutti.
Lentamente si fanno strada le “scomode verità”, talmente scomode o meglio hard (cioè dure, come recita il titolo originale) e insopportabili, da avere ferito così profondamente Pansy, che non riesce a riconoscerle o a rivelarle nemmeno a se stessa. Così quando Chantelle le chiede semplicemente: “Perché non riesci a goderti la vita?”, la povera donna non sa rispondere altro che con uno sconsolato e perentorio: “Non lo so”.
Tutto il suo sarcasmo e la perenne aggressività contro tutti sembra quasi un folle progetto di difesa a oltranza dal mondo, per evitare un eventuale attacco delle persone e persino degli animali, siano insetti, uccelli o volpi, che la spaventano al punto da precluderle persino il suo giardino, in cui non esce mai. L’unico momento di pace per lei sembra essere il sonno, più di giorno che di notte, da cui si risveglia però con urla di terrore per angosce sconosciute.
E noi, lentamente, ci avviciniamo a questa donna chiaramente sofferente, cominciamo ad averne compassione e vorremmo capire l’origine di tanto dolore, visto che Pansy afferma solamente, sconsolata: “La gente allegra e sorridente non la sopporto”.
Osservando come la tormentata e irosa protagonista pulisce maniacalmente la casa, quasi cercando di realizzare all’esterno quell’ordine interiore che non riesce a trovare, iniziamo a capire che la sua collera e i suoi sonni agitati mascherano qualcos’altro, forse una profonda depressione. Sono rivelatori i frammenti dell’infanzia di Pansy e Chantelle che emergono nei loro brevi dialoghi, in cui la sorella minore, solare e disponibile, cerca di far uscire la primogenita dalle sue ombre cupe.
Si intravedono così le motivazioni di tanto malessere, i rancori e le carenze affettive che si sono trasformati nell’isolamento intensamente sofferto della protagonista. Lei non riesce quasi a riconoscerli, nemmeno davanti alla tomba della madre che forse, quando lei era bambina, le ha affidato troppe responsabilità e purtroppo è morta quasi tra le sue braccia.
Insomma, quando il peso della vita diventa schiacciante, allora appare inevitabile soccombere o rinchiudersi in una dura corazza con cui, per difendersi, si parte all’attacco di chiunque sembra non accorgersi che l’esistenza per qualcuno è davvero un’oppressione insopportabile. E qui scatta il sommesso suggerimento (o augurio) di Leigh, un regista davvero bravo a scavare nel male dell’anima, che per altri è quasi una colpa, per lui invece merita sempre compassione: è possibile così non abbandonare chi fa di tutto per essere sgradevole, forse perché non riesce a comportarsi diversamente.
Infatti, solo la pazienza e il vero amore di Chantelle, in una riunione di famiglia, sono in grado di sciogliere in pianto tutto il dolore di Pansy, che pronuncia anche il suo primo “grazie” al figlio (che lei rimprovera sempre e tratta malissimo), che le ha regalato un mazzo di fiori per la festa della mamma. Tuttavia non tutto finisce in gloria, lontano da facili semplificazioni; così quegli stessi fiori saranno gettati via dal marito, non certo particolarmente amato dalla moglie, quasi sempre antipatica e distaccata con lui.
Ma la strada vincente resta comunque quella dell’amore, di un gesto gratuito e inaspettato, capace di aprire nuovi orizzonti. Come quello della ragazza sconosciuta che sorprendentemente si avvicina a Moses, in uno dei suoi vagabondaggi senza meta: sedendogli a fianco gli sorride e gli offre una patatina. Alla fine del film lo spettatore spontaneamente si ritrova più propenso a comprendere e meno a condannare quelle persone che si dimostrano tanto ostili e respingenti, ma forse hanno solo sul cuore un peso troppo grande, che dovrebbe essere accolto e condiviso.
Certo la magnifica interpretazione di Marianne Jean-Baptiste, che ci regala una Pansy indimenticabile, con registri comici e drammatici fusi con assoluta maestria, aggiunge valore a una pellicola che di per sé è già un capolavoro di indagine dell’umano, soprattutto quando è angustiato dall’infelicità. Il richiamo più forte però, espresso con delicatezza, è che la rabbia (quella tremenda di Pansy) non è una risposta, perché in realtà può solo distruggere. E di questi tempi di social incattiviti, convincersi di questo è davvero urgente per tutti, per ritrovare speranza nella vita e non abbandonare alla solitudine chi soffre nel suo intimo.
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