"40 secondi" di Vincenzo Alfieri ripercorre le ultime ore di Willy Monteiro Duarte prima di essere assassinato. L'autore lo ha visto con i propri studenti
Se c’è un argomento che interessa molto i miei studenti è quello del male, soprattutto se a farlo sono dei loro coetanei. Succede perché hanno a cuore la loro vita e desiderano la felicità in modo potente, ma essendo “più sani degli adulti e dei vecchi, sentono che nel male c’è un’ingiustizia della cui continuazione l’uomo è responsabile” (Luigi Giussani) e sono sempre più turbati al pensiero di rovinare tutto, sbagliando o diventando succubi del male altrui, magari ritrovandosi coinvolti nella “solita” rissa di fine settimana.
Mi sono reso conto ancora una volta di quanto la questione avvinca i ragazzi andando a vedere insieme ad una mia classe 40 secondi, un film realistico e brutale – pasoliniano, per certi versi – sulla vicenda di Willy Monteiro Duarte, il ventunenne ucciso nel settembre 2020 per aver tentato di difendere un suo amico e sventare l’ennesimo scontro.
Confesso di essere andato un po’ prevenuto, temendo la solita pellicola a tesi politico-sociologica di molto cinema italiano. Invece il film non lascia molto spazio a spunti retorici – qualcosa c’è, ma più nei personaggi adulti, ovviamente – e si limita a raccontare in modo abbastanza approfondito la vita dei giovani protagonisti principali della vicenda: un’esistenza fatta prevalentemente di fragilità, violenza, ignoranza, istintività, egoismo, ma non priva di desideri e di aspettative di bene.
L’atmosfera del film è certamente asfissiante per lo spettatore. Questi, dopo aver potuto conoscere le storie e i contesti di vita dei protagonisti, vede questi perdersi in un intreccio tragico, risucchiati dalle sabbie mobili di scelte sbagliate che conducono in oscuri vicoli ciechi e senza che nessuno offra loro una possibilità di redenzione.
In questo senso, le figure adulte – fatta eccezione forse per quella del poliziotto – sono evanescenti e patetiche, come quella del professore di filosofia, simbolico esponente dell’indifferenza adulta per i giovani, che non si è ancora reso conto dell’attività criminale svolta dal ragazzo dal quale la sua amata figlia, ignara anch’essa dei segreti del compagno, aspetta un bambino.
Eppure, proprio grazie a questa trama malvagia e caliginosa, secondo i classici canoni del dramma, si notano di più alcuni punti di luce, smagliature in cui si insinua umanità, desiderio di bene. Come la scena della visita ecografica, durante la quale lo stupito ed emozionato Lorenzo – così si chiama nel film il personaggio del gemello assassino – può osservare per la prima volta suo figlio, si scopre incredibilmente padre e si scioglie, prima ed unica volta per tutto il film, in un sorriso vero di felicità.
Anche i miei studenti hanno notato questa scena e si sono commossi con me: me lo hanno confessato quando abbiamo ripreso insieme il film in classe. Perché sicuramente Lorenzo è un “cattivo”, cioè – etimologicamente – “prigioniero” del suo stesso male, dei suoi atti. In quel momento però, o quando difende la madre dal padre violento, traluce da lui un’esigenza di “essere”, di amore e bene per sé e per chi “ama”.
Parlando del film, pian piano i miei ragazzi comprendono questo dato dell’esistenza umana più che se non avessi fatto loro mille lezioni di educazione civica: è il “video meliora proboque, deteriora sequor” di Ovidio, che spero abbiano studiato al posto dell’Agenda 2030, a cui fa eco l’urlo di Paolo in Romani 7: “ma nelle mie membra vedo un’altra legge, che muove guerra alla legge della mia mente e mi rende schiavo della legge del peccato che è nelle mie membra. Sono uno sventurato! Chi mi libererà da questo corpo votato alla morte?”

Con i ragazzi tengo aperti la saggezza antica di Ovidio e il grido illuminato dalla fede di Paolo, invitandoli a riconoscerli nella loro esperienza e a non averne paura. Sono riflessioni che ci portano insieme oltre il film, dentro noi stessi e la nostra inquietudine, anche se nella pellicola uno spunto di risposta forse c’è, ma non voglio anticiparlo (se c’è una cosa che ho imparato insegnando e di non de-finire mai prima del tempo e tenerli sulla graticola delle domande finché si può).
È un ragazzo a coglierlo: “prof, come mai Willy si comporta diversamente?” Ripercorriamo il film e conveniamo che Willy non viene descritto come un supereroe ma come un ragazzo normale, con i suoi difetti e limiti, ma è diverso e felice di vivere perché grato dell’amore che riceve dalla sua famiglia e dai suoi inseparabili amici.
Proprio in forza di questo Willy compie un gesto di pace che sembra “normale” o almeno dovrebbe esserlo tra amici veri, come mi ha detto un altro dei miei studenti.
Ecco, l’amicizia è l’altro grande tema del film. Chi è veramente amico? Nel film vengono rappresentate sia le relazioni “tossiche”, dove per “amicizia” – che ormai per molti ragazzi significa soltanto l’essere semplicemente riconosciuti da qualcuno come esistenti al mondo – si è disposti anche ad uccidere o a svendere il proprio corpo e la propria dignità; sia quelle che malgrado la stessa povertà e fragilità reggono all’urto del male.
Comunque, come denominatore comune alle due posizioni, è la percezione nei ragazzi che non si può sacrificare la vita per le leggi, i regolamenti e le Agende e tutto quello che proponiamo noi adulti “perbene” per contrastare il male e la violenza: lo sanno che il bene non è un’idea, ma è sempre qualcuno che si è accorto di te, magari cattivo e che ti vuole strumentalizzare, eppure dà senso all’alzarsi dal letto ogni mattina e che per questo va difeso, anche se a volte non si riesce per codardia, come i ragazzi di fronte alla brutalità degli assassini di Willy.
Noi adulti invece rimaniamo annichiliti dalla violenza delle baby gang proprio perché ignoriamo (o vogliamo farlo) questo sentimento dei rapporti che hanno i giovani, ma è quello con cui devono arrangiarsi, visto l’ideale di convivenza e di “amicizia” che abbiamo offerto loro.
Poco prima di essere ucciso Willy canta con i suoi amici il ritornello di una canzone del rapper romano Noyz Narcos che dice “Vojo resta’ co’ te sinnò me moro”. Infatti “noi quasi sentiamo per istinto che, se salvezza ci può venire, essa ci verrebbe da una persona. Una persona ci deve salvare, non una dottrina, non un metodo, non una organizzazione, non una rivoluzione, non una guerra” (Giussani).
Il problema della vita, per noi come per i nostri giovani, è trovare quel “tu” che ci salva e con cui stare per sempre. Ma anche Noyz Narcos si rende conto che non può essere un “tu” qualunque se cita nella stessa canzone Gesù Cristo, uno che “’n’ha mentito e l’hanno crocifisso”.
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