Dovremmo essere – si dice – alla volata finale per poter avere il famigerato testo che è stato ribattezzato Dpcm dei 60 crediti, atteso dal luglio 2022 da università, sindacati e, soprattutto, da migliaia di aspiranti docenti: qualcuno giovane, la maggioranza precari storici. Il Dpcm dei 60 crediti si occupa della formazione iniziale dei docenti della scuola secondaria, al fine di istituire un percorso strutturale e ordinamentale, dopo l’esperienza quasi decennale della Ssis (legge 341/1990), biennale del Tfa (Dm 249/2010), del mai partito Fit (legge 107/2015), dei Cfu 24 delle discipline antropo-psico-pedagogiche (Dm 616/17), nella volontà di porre rimedio a tanta volatilità dei percorsi professionalizzanti, che hanno evidenti ripercussioni negative sulla qualità del servizio offerto agli studenti a scuola.
La definizione di questo percorso è ancor più necessario in quanto vi è un iter ormai stabile per maestre e maestri che frequentano Scienze della formazione primaria. Paradossale agli occhi dei non addetti ai lavori, la tela di Penelope della creazione di un percorso stabile e strutturato per formazione dei professori di medie e superiori si può anche spiegare – oltre che per la convenienza, da un parte, della politica di considerare migliaia di aspiranti al posto fisso come bacino elettorale e, dall’altra parte, del sindacato che gestisce un florido mercato di consulenze e battaglie decennali di stabilizzazioni per i precari – con una causa intrinseca al mondo accademico ma meno plateale: il rapporto università-scuola.
Questo infatti è una sorta di “terra di mezzo” nelle due polari oscillazioni: da una parte la “universitarizzazione”, che rappresenta la teoria; dall’altra parte l’autarchia scolastica, che costituisce la pratica. Il corso di formazione iniziale dell’aspirante docente dovrebbe costituire un momento di possibile sintesi per mettere in evidenza le esigenze della didattica come sapere professionale.
Dunque l’atteso Dpcm ex art. 2-bis comma 4 del Dlgs. 59/2017 consentirebbe di attivare i percorsi di formazione iniziale degli insegnanti da 60 Cfu/Cfa in modo standard e aperto ai neofiti, con già due “contentini” inclusi, ovvero due versioni riservate ai docenti con 36 mesi di servizio a tempo determinato e a coloro che hanno acquisito i 24 Cfu della legislazione previgente entro il 31 ottobre 2022. L’anno prossimo accademico, e più concretamente da settembre, dato che non è stato ad oggi emanato il testo definitivo di questo Dpcm, sarà una corsa contro il tempo e, purtroppo, un caos annunciato, in quanto le università sono chiamate a organizzare percorsi di 30 crediti con conclusione entro fine febbraio 2024 e quelli di 60 crediti con conclusione entro maggio 2024.
Tutti d’accordo, indubbiamente, sull’impalcatura generale del percorso dei 60 crediti, ancora privo di un nome codificato in una acronimo (un pessimo segnale per la burocrazia italiana!). Infatti, dopo il nihil obstat morale dei sindacati, dopo i pareri degli esperti di enti accademici come Cun e Crui, e dell’approvazione formale del Consiglio superiore della Pubblica istruzione (Cspi), Palazzo Chigi deve controllare i rilievi e valutare quali accogliere, per partorire la versione definitiva dello schema di Dpcm. Ma in realtà il Dpcm del percorso dei 60 crediti è un grande armadio vuoto che va riempito di contenuti specifici didattico-pedagogici, con un metodo organizzativo-logistico che scoraggerebbe i più audaci, visto il pochissimo tempo e la platea smisurata di corsisti, i quali andranno selezionati, obbligatoriamente, con la ghigliottina del numero chiuso.
Gli estensori del Dpcm sono stati alquanto sagaci nel non nominare esplicitamente questa patata bollente del numero chiuso, poiché sarebbe andata contro uno dei cavalli di battaglia di certo sindacato. Allora si fa da scarica-barile della spinosa questione alle singole università in nome della “sostenibilità didattica”: se in una determinata classe di concorso si prevede che i candidati saranno di più rispetto al numero dei posti disponibili che le università possono “sostenere” nel corso della formazione dei corsisti di quella materia, l’ateneo è autorizzato a mettere un test di ingresso. Su quali parametri per calcolare il numero dei posti? Sulla carta è semplice e ragionevole: la previsione del fabbisogno di docenti in quella materia. Anche qui la norma è vaga e creerà il malumore dei precari storici che non riusciranno ad avere il posto nel corso.
La maggior parte degli atenei, naturalmente, vuole attendere l’emanazione della versione finale del Dpcm per attivarsi e iniziare a organizzare le procedure necessarie e non si lasceranno scappare l’affare, dato che il corso dovrebbe costare dai 2mila ai 3mila euri.
Uno scatolone vuoto dunque, che sarà riempito alla meglio, perché il Pnrr impone questo percorso, che ha una criticità sostanziale e di fondo, messa bene in luce da Massimo Baldacci, docente di pedagogia all’Università di Urbino e componente Siped (Società italiana di pedagogia), in un webinar organizzato da Tecnica della scuola: “Occorrerebbe una riflessione più chiara sul tipo di insegnante che si vuole formare, al momento latitante all’interno del decreto. Quest’ultimo sta passando nel dibattito come il decreto dei 60 Cfu, un’indicazione puramente quantitativa. Sembra che basti accumulare crediti per formare l’insegnante, come se si dicesse che il compito di un muratore è accumulare mattoni senza indicargli cosa deve costruire. Se non si chiarisce il tipo di insegnante che si vuole formare allora non basta indicare le competenze. La formazione rischia di diventare frammentaria. Un esempio è l’idea di insegnante-ricercatore di Dewey, un docente in grado di affrontare con uno spirito di ricerca i problemi della pratica educativa. Si dovrebbe chiarire questo, che al momento manca”.
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