La scuola a 25 anni dall'autonomia: la nozione di successo formativo individuale è la chiave di una possibile svolta (2)
È qui che un corretto approccio alla questione dell’autonomia scolastica diventa centrale. Sotto una duplice dimensione: autonomia organizzativa ed autonomia didattica.
L’autonomia organizzativa è fatta di molte cose possibili: fra queste, una che sarebbe ovvia, ma che viene invece dimenticata o, quando evocata, scartata con sdegno. Mi riferisco a quel che si suole indicare come equi-eterogeneità nella formazione delle classi. Si tratta di quel criterio per cui, nelle classi prime di ogni percorso, si inseriscono un pari numero di studenti con un profitto precedente rispettivamente ottimo, buono, sufficiente, con alcune lacune e radicalmente scarso.
Un criterio di apparente equità, che nei fatti diventa uno strumento per consolidare le differenze iniziali, anziché appianarle. Se si mettono di fronte alle stesse sfide cognitive e metodologiche studenti con livelli iniziali così diversi, si sono scelti già in partenza quelli che non ce la faranno. Con le migliori intenzioni del mondo, naturalmente: ma mettere a confronto, nella stessa corsa, i più brillanti con i meno dotati, significa aver scritto una sentenza di fatto inappellabile.
E quindi un primo strumento di autonomia organizzativa, se si vuole che la scuola non perda inesorabilmente proprio quei ragazzi che di essa avrebbero maggiore bisogno, consiste nell’adottare, nella formazione delle classi prime, un criterio di differenziazione programmata: cioè, di classi al cui interno le differenze di livello iniziale siano non troppo accentuate. Non classi di livello, in senso puro, composte cioè solo di studenti di pari livello: perché verrebbe meno quel tanto di spirito emulativo che è stimolo al miglioramento individuale. Ma il divario deve rappresentare una sfida di cui tutti, almeno in partenza, siano all’altezza.
Per dirla in termini concreti: posto che la tradizionale classificazione in cinque livelli delle prestazioni degli alunni sia corretta, in una stessa classe devono trovarsi di regola due livelli adiacenti, o al massimo tre: non di più. Ovvero ottimi e buoni; oppure sufficienti e con qualche lacuna; e così via.
Sembrerebbe ovvio: eppure, il solo proporlo suscita immediate reazioni sdegnate. Perché si farebbero “classi di serie A e di serie B”; oppure, più banalmente, perché nessun docente vuole “le classi degli asini”. Come se il compito della scuola non fosse proprio quello di farsi carico soprattutto degli asini: quelli che, senza di essa, non avrebbero nessuna opportunità di uscire dalla propria condizione. Ma proprio la difficoltà di accettare una modesta proposta organizzativa di buon senso come questa spiega perché l’autonomia non è decollata.
Nello spazio di un articolo non vi è la possibilità di esaurire la ricerca delle cause di un tale insuccesso. Ma almeno un’altra questione dovrà essere affrontata; non meno controversa, ma altrettanto connessa alla radice stessa dell’autonomia didattica: quella appunto del successo formativo individuale, e quindi della differenziazione dei livelli fin dalla fase della progettazione.
Anche qui, sembrerebbe trattarsi di cosa ovvia: che ci sta a fare l’autonomia didattica se non per differenziare i contenuti dell’insegnamento e quindi gli obiettivi di apprendimento? Ma, nei fatti, pensare che un insegnante possa sviluppare, all’interno della classe, due o tre livelli diversi di complessità del proprio insegnamento è del tutto utopico. E quindi, di fatto, sceglierà un livello intermedio che taglierà comunque fuori i più deboli (condannati in partenza) e non riuscirà ad essere una sfida intellettuale per i più dotati (che si annoieranno o cercheranno, e troveranno, altrove stimoli alla loro altezza).
Perché i più dotati hanno sempre altre opportunità fuori della scuola: nelle proprie curiosità o nelle proprie famiglie. E questo finisce con il realizzare la peggiore delle ingiustizie, almeno in ambito sociale: quella per cui solo a chi ha sarà dato.
Una soluzione praticabile non si può ipotizzare, se non avendo preventivamente attuato la condizione organizzativa sopra richiamata: che, cioè, si formino delle classi con significativi scarti fra di loro nel livello medio di competenze pregresse, ma con differenze contenute al proprio interno. Una classe relativamente omogenea, quanto ai prerequisiti dei propri studenti, può più facilmente trarre profitto da una offerta didattica di livello adeguato: tale da sfidare le capacità di tutti con buone probabilità di successo.
Naturalmente, il livello proposto dovrà differire in modo sostanziale fra le varie classi, posto che viene offerto a studenti di capacità diverse. Il che porta al nodo immediatamente successivo: e cioè quello del valore legale del titolo di studio, che è uguale per tutti.
Apparentemente, non vi sono vie di uscita, se non appunto l’abolizione di quel valore: cosa che altri Paesi praticano da tempo, riuscendo a farne una leva di crescita collettiva. Ma – e non sarebbe corretto dimenticarlo – con costi di stratificazione sociale che forse il nostro Paese non si può permettere. Tuttavia, e fermo restando che sulla questione occorrerà prima o poi ritornare, si può almeno immaginare una soluzione mista, che prenda le mosse da quella che è comunque una condizione di fatto.
È noto, infatti, che il diploma conclusivo degli studi secondari funziona ormai solo come una chiave di esclusione. Esso, cioè, serve solo per chiudere alcune porte – sostanzialmente solo quella dei pubblici concorsi – a chi non ne è in possesso. Ma, a tutti gli altri fini, inclusa ormai l’iscrizione ad un numero crescente di facoltà universitarie, esso deve essere integrato, quando non sostituito, da altri accertamenti.
A titolo di esempio, e con riserva di ulteriori approfondimenti, si potrebbe pensare – soprattutto per gli istituti tecnici e professionali e per i licei ibridi – una soluzione basata su diplomi di livello diverso, ciascuno dei quali accompagnato da una ben strutturata certificazione di competenze. E magari, da una differenziazione dei percorsi successivi cui ciascun livello apre le porte. Qualcosa del genere esiste già, per esempio in Olanda: e non sarebbe impossibile pensarlo anche in una realtà diversa, come la nostra.
Un articolo, per quanto lungo, non è la dimensione idonea per disegnare in tutti i suoi aspetti una riforma globale del sistema scolastico. Ma sarebbe già un contributo se valesse a riportare al centro dell’attenzione collettiva un tema come quello del successo formativo individuale. Senza il quale la scuola è destinata a smarrire sempre di più la propria ragion d’essere: anche se agisce come uno spazio collettivo, non si può infatti dimenticare che essa forma delle persone. E che quanto più numerosi saranno gli individui che troveranno al suo interno spazio e stimoli per sviluppare fino in fondo il proprio potenziale cognitivo, tanto più ricca e progredita sarà l’intera comunità civile.
(2 – fine)
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