Ha fatto molto discutere nei giorni scorsi un intervento pubblico di Umberto Galimberti. Il filosofo ha sostenuto che la scuola elementare è diventata simile a una clinica psichiatrica. È aumentato in maniera considerevole il numero di certificazioni, che spesso diventano fondamentali per ottenere la promozione. Le famiglie, in tale ottica, tendono a medicalizzare aspetti della vita che prima erano considerati limiti scolastici e/o intrinseci dell’alunno.
Il giudizio di Galimberti, però, non tiene conto delle acquisizioni che sono state fatte in ambito scientifico. Dislessia, discalculia e disgrafia sono fatti veri, non inventati. Sarebbe utile a tutti la lettura del bel volume di Giacomo Stella, La dislessia (Il Mulino, 2004). E anche la sindrome di Asperger, invisa a Galimberti, non è un caveat imposto ai docenti, ma un dato di realtà.
Bisogna rilevare, però, che negli altri livelli della scuola – media inferiore e superiore – è cresciuto, effettivamente in maniera enorme, il disagio psicologico. Chi vive la scuola dal di dentro vede cosa sta accadendo. Siamo di fronte a un vero e proprio cambiamento epocale. Molti studenti vivono situazioni complesse e drammatiche da un punto di vista umano.
Prima non era così. Cosa sta succedendo nella scuola? Gli adolescenti di oggi, da un lato, vivono una crisi di passaggio con domande di senso che spesso non vengono sorrette e accompagnate. Ma si trovano, dall’altro, in uno svantaggio reale rispetto alle generazioni precedenti di adolescenti. Sono i figli della generazione del nichilismo gaio. Tale generazione ha comunicato la dimensione del “tutto è facile”: sesso a casa, aperitivo garantito, vacanze certe, disimpegno politico (“andrà tutto bene”), rapporti umani di consumo e di piacere. La frustrazione, la difficoltà, l’insuccesso sono da evitare o da negare. Chi nega, poi, l’accesso alla facilità delle cose e del capriccio del godimento lede i diritti della persona.
La generazione che ha vissuto la fuga dalla realtà, chiusa nella bolla del narcisismo chiede di conseguenza anche la promozione facile. Scuola senza zaino, senza voto, senza libri: senza vita insomma.
Tanti genitori, perciò, in caso di difficoltà, domandano ai docenti di parlare con lo psicologo del figlio, con l’allenatore della squadra, con il docente privato del British. Quelli meno fortunati economicamente pregano i docenti di incontrare la ragazza neolaureata che aiuta la figlia a fare i compiti (ovviamente nessuno invita i professori a parlare con il prete dell’oratorio, per ovvie ragioni). I colloqui scuola-famiglia diventano, così, una sorta di partita da affrontare intelligentemente per non prendere goal. Bisogna trovare le parole giuste, i modi convenienti, la giusta mediazione: non mettere il dito nella piaga educativa, insomma.
Negli incontri con le famiglie si tratterebbe invece di consolidare il patto educativo con uno scambio leale e veramente utile alla crescita dello studente.
Allora va detto a chiare lettere che la questione della diffusa ed estrema fragilità degli adolescenti dipende tanto dai genitori. Amori liquidi, vite opulente e distrazione dai problemi. Una generazione intera ha perso il contatto con la realtà, con il valore della fatica e l’importanza del sacrificio. Perduti tra nuovi smartphone e vacanze da cartolina, abbiamo dimenticato o negato il centro della realtà. Abbiamo comunicato che la vita è un’autostrada senza veicoli, senza code impreviste e senza intoppi.
Oggi occorre incontrare uomini, prima che docenti o genitori, che ci ricordino che siamo sì fragili, ma anche grandi. Che il nostro io e quello degli adolescenti non ha bisogno di consulenti, avvocati o sindacalisti, ma di qualcosa/qualcuno che lo faccia sobbalzare e impegnare in un lavoro.
Gli uomini, tutti, proprio tutti – anche gli adolescenti – non sono fatti per la comodità, ma per andare oltre.
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