Più la mancanza di senso attanaglia i giovani, più fioriscono le spiegazioni e gli esperti in grado di dare risposte. Vale purtroppo anche nella scuola
Nelle settimane scorse, alcuni episodi di grave violenza tra adolescenti hanno scosso le città della Romagna. A Lugo, un ragazzo di 16 anni è stato incappucciato e brutalmente picchiato da un gruppo di coetanei; l’aggressione è stata ripresa e postata sui social. A Cesena, una decina di ragazzi sono entrati nel cortile di una scuola e hanno aggredito con machete e coltelli un quindicenne, che ha ricevuto un colpo al volto potenzialmente letale. In entrambi i casi, i motivi erano legati a questioni di denaro: 5 euro prestati nel caso di Lugo, oppure una dose di droga scadente non pagata, nel caso di Cesena.
I fatti di violenza aumentano e, come spesso accade, si moltiplicano anche le analisi, alimentate da serie di successo come Adolescence, che affrontano proprio il tema del disagio giovanile che sfocia in violenza.
Le cause di questa situazione sembrano ormai infinite: nella lista si mettono cellulari, social network, famiglie, globalizzazione, la fine delle grandi ideologie, droga, alcool, scuola… in pratica, il mondo intero.
L’”emergenza educativa” è diventata anche un business: esperti di educazione, sociologia, psichiatria e società cercano di analizzare il fenomeno attraverso incontri, articoli, libri e spettacoli teatrali, individuando colpevoli diversi in base alla propria sensibilità, formazione o ideologia. Chi non ha visto, almeno una volta, l’intervento di qualche esperto su queste tematiche circolare sui social? Tutti ne parlano, ma la situazione sembra solo peggiorare.
Allora, cosa fare? Provo a dare dei suggerimenti partendo dalla mia esperienza di insegnante ed educatore che quotidianamente vive con adolescenti.
Il primo punto è “stare”. Un amico sacerdote, qualche anno fa, mi disse che prima di tutto, con gli adolescenti, bisogna “starci”: bisogna vivere con loro, fare una proposta che comunichi che è bello stare insieme, perché noi teniamo davvero a loro. Trascorrere del tempo con loro significa dirgli, con i fatti, che in quel momento non ci interessano il lavoro, i soldi o lo sport: ci interessano loro, e vale la pena essere lì con loro.
Il secondo punto è “essere”, e si lega profondamente al primo. Qualche giorno fa, un ex alunno di una scuola in cui non insegno più mi ha scritto che non stava bene e mi ha chiesto di vederci, perché – parole sue – “eri l’unico professore che mi aveva spronato un po’ di più per la scuola e per la vita”. Io insegno religione e “sto” con i miei alunni solo un’ora a settimana. Gli altri insegnanti li vedono molto più di me. Eppure, questo ragazzo aveva percepito che ero diverso dagli altri.
Non lo sono perché più bravo, simpatico o empatico (chi mi conosce potrebbe confermare). Sono diverso perché da adolescente ho incontrato don Luigi Giussani e l’esperienza cristiana da lui proposta. Ho scoperto allora, e continuo a scoprire ogni giorno, che la vita ha un senso. È esattamente ciò che i ragazzi che incontro a scuola stanno cercando.
Sono cresciuto in un quartiere periferico di Forlì, che qualcuno allora chiamava “Bronx”. Dalla finestra del secondo piano di casa mia vedevo giovani poco più grandi di me spacciare eroina e altra droga. Molti di loro sono morti di overdose nei parchi della zona. Faccio fatica a pensare che quei tempi fossero migliori di quelli attuali.
In quel periodo ebbi modo un giorno di ascoltare don Giussani leggere la lettera di una ragazza che si era suicidata nei bagni di una stazione di Roma. Si era impiccata. La frase che mi colpì come un fuoco nell’anima fu: “Nella vita ho avuto tutto: l’utile e il superfluo, ma non l’indispensabile”.
Non fu solo quella frase a provocarmi, ma anche l’insistenza di Giussani, che interpellava la mia libertà con chiarezza: “Cos’è per te l’indispensabile nella vita?” e mi fece anche capire che lui aveva trovato ciò che era indispensabile per la sua vita. E che poteva essere un’ipotesi valida anche per me. Accettai quella provocazione e questo mi ha permesso di essere diverso.
“Stare” ed “essere” sono i due verbi che possono aiutarci ad affrontare la crisi educativa che stiamo vivendo. Forse, però, dovremmo invertire l’ordine: lo “stare” è conseguenza dell’“essere”. Stare con i ragazzi senza essere portatori di una proposta educativa concreta, senza una posizione umana chiara, diventa solo un generico richiamo al rispetto delle regole. E questo, da solo, non serve a nulla.
Per capire a che punto siamo noi adulti nel rapporto con gli adolescenti, dobbiamo porci la stessa domanda che mi pose don Giussani oltre trent’anni fa: “Che cos’è indispensabile nella tua vita?”. I ragazzi ci guardano, e sanno già la risposta che ciascuno di noi dà con la propria vita. E spesso proprio quella risposta è il motivo per cui pensano che la vita non valga la pena di essere vissuta.
Così, anche usare un machete contro un quindicenne può sembrare più “sensato” di ciò che, come adulti, stiamo loro proponendo.
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