Le iniziative per ridurre i compiti a casa hanno ovviamente un nocciolo di buon senso. Non si può negare che “il troppo stroppia” o, più dottamente, che “in medio stat virtus”, per non parlare del definitivo “abusus non tollit usum”. D’altra parte è impossibile stabilire criteri rigidi per evitare il sovraccarico di lavoro a casa, come dimostra la storia degli auspici e dei suggerimenti che vari ministri hanno rivolto ai docenti in merito, sempre precisando, come ha fatto Valditara, “nel pieno rispetto dell’autonomia decisionale dei docenti”.
I quali possono utilizzarli anche per quella “personalizzazione” di cui tanto si parla (quasi sempre senza fare esempi concreti), assegnando esercizi di recupero ai ragazzi che hanno delle carenze o letture che vadano incontro ai loro interessi.
Alla fin fine, il problema è per forza affidato sia all’equilibrio e all’esperienza dei singoli insegnanti, sia a quel tanto di accordi che può scaturire da un confronto tra loro, che ogni istituto farebbe bene a promuovere.

In ogni caso, la statistica più diffusa su internet ci dice che per gli studenti italiani della scuola secondaria (medie e superiori) il tempo medio dedicato ai compiti è di 8 ore e mezzo la settimana. Se dividiamo questo dato per sette giorni, abbiamo un impegno giornaliero di 1 ora e 13 minuti. Tanto rumore per nulla?
L’impressione è che le proteste di gruppi di genitori e di ragazzi contro l’impegno pomeridiano sia anche una delle manifestazioni di quella tendenza alla facilitazione che vorrebbe eliminare dalla vita dei bambini e dei ragazzi la fatica, insieme tutto ciò che si presume ansiogeno e possibile fonte di “traumi” e frustrazioni.
Purtroppo, l’iperprotezione ottiene proprio l’effetto paradossale di coltivare l’ansia e l’insicurezza, facendo mancare le occasioni in cui ci si misura con difficoltà e rischi e si acquista così la capacità di affrontarli, in altre parole la forza di carattere. Che si apprende anche accettando di non fare soltanto quello che ci piace.
Contano spesso, nel motivare le campagne contro i compiti a casa, anche le attività sportive (e non solo) che molti studenti svolgono nel pomeriggio. E che hanno il loro valore, ma non devono entrare in conflitto (magari pretestuosamente) con le esigenze della scuola.
In conclusione, la vittima principale della pretesa di esaurire tutto o quasi il processo di apprendimento nell’orario scolastico finirebbe per essere lo studio individuale, cioè un pilastro ineliminabile della formazione scolastica. Leggere, rileggere, sottolineare, prendere appunti, farsi o farsi fare domande, riassumere oralmente o per scritto, imparare a memoria poesie, date, nomi di Stati, di città, di fiumi, di catene montuose.
In un modo o in altro, lo abbiamo fatto tutti, come lo facevano greci e latini, che oltretutto non disponevano delle molteplici protesi mnemoniche di cui oggi abbondiamo.
Nel suo libro L’educazione della mente (1962), il matematico e pedagogista Lucio Lombardo Radice, riprendendo analoghe affermazioni di Gramsci, scriveva che “un momento non eliminabile per un solido sviluppo intellettuale in una direzione quale che sia, per l’acquisizione di un permanente patrimonio culturale comunque configurato, è lo studio-lavoro, la lettura-riflessione, lo sforzo di comprensione tenace, l’applicazione disciplinata, organica, paziente, la faticosa organizzazione della propria mente e del proprio sapere”.
Questo confronto personale con i libri per consolidare o approfondire quanto appreso nelle ore di lezione, questa graduale costruzione di un proprio modo di studiare sono essenziali per mettersi in grado di proseguire gli studi e per il proprio futuro di lettore.
Per lo studio a casa, certamente, ogni studente dovrebbe disporre di un ambiente che faciliti la concentrazione; ed è indispensabile mettere coraggiosamente fuori gioco il distrattore per eccellenza, il cellulare, dei cui danni si è spesso parlato sul Sussidiario. Ma questa è un’altra storia.
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