Si chiudono gli scrutini, si apre la porta dell’esame di Stato, numeri… numeri… numeri, quanto questi strumenti siano in grado di esplicitare il valore dei nostri ragazzi è difficile dirlo.
Prevalgono dubbi, perplessità e sfiducia.
Rarissimi i giudizi positivi, tanta tensione, tanto rancore, poco dell’alleanza educativa di cui a parole sono colmi i nostri Piani dell’offerta formativa (Pof).
Non si potrebbe ripensare ai docenti come a buoni mercanti di stoffe? Troppo economicistica la metafora? se il mercante ha tra le mani seta non la confonde con raso, damasco o broccato, se è lana ne deve conoscere le mille qualità e differenze (il cachemire non è shetland o lambswool), e se una stoffa presenta qualche parte sdrucita si può rammendare o magari metterci una toppa. L’Europa è nata anche con i mercanti di stoffe.
Fuor di metafora: fino quasi al termine della scuola secondaria di primo grado la valutazione continua ad essere oggetto di studio e di formazione (si pensi alle preziose diagnosi tempestive di disturbi o bisogni speciali o alle recenti modifiche dei criteri di valutazione, del passaggio ai giudizi descrittivi nella primaria), in una prospettiva dinamica, che apra a sviluppi, a miglioramenti, il giudizio finale invece, lo sappiamo, ingabbia. Gli studenti che conseguono risultati tra l’8/decimi e i 10/decimi ai licei, risultati inferiori ai tecnici e ai professionali, il modello gentiliano vince ancora.
Il grande Alexis Carrel, autore caro a tanti lettori, ci richiamò già nel 1958 a osservare molto prima di proferire giudizi definitivi eppure in tante scuole secondarie di primo grado il voto ancora cristallizza intelligenze, potenzialità, promesse, in percorsi preconfezionati; un cattivo orientamento è prodromico all’insuccesso, alle ripetenze, a cambiamenti infruttuosi.
Quanta creatività artistica, musicale, artigianale viene sprecata? Non riconosciuta e avviata verso scuole in cui prevale l’astrazione, destinate a generare fallimenti e sofferenze?
Quanti studenti si avvicinano per esempio all’informatica semplicemente perché affascinati dal digitale, senza sapere che invece li aspetta tantissima logica, rigore, proceduralità? Insuccesso assicurato, anni persi, bocciature, ripetenze, abbandoni.
Primo step costruttivo: un orientamento più serio, eclettico, teso ad incontrare percorsi e professioni che possano incrociare le “intelligenze multiple” di cui da decenni si parla, ma che stentano ad essere riconosciute nel nostro Paese, soprattutto nella scuola.
I figli dei professionisti continuano a scegliere il liceo classico e scientifico, pochi l’artistico, tecnico e professionali agli “altri”.
Anche il sistema statale/paritario da cui potrebbe nascere una osmosi fruttuosa ha visto sostanzialmente la prevalenza dei licei per quanto non vadano misconosciute esperienze assolutamente positive a cui guardare con enorme stima, in primis la tradizione tecnica salesiana, ma anche esperienze eroiche come quelle di In-presa e di Galdus.
Ma alla scuola superiore cosa accade?
Il sistema fa acqua: c’è bisogno di un grande cambiamento. I più vecchi fra noi ricorderanno un’altra metafora, presente in tutti i testi di scuola elementare: a giugno la mietitura, il raccolto.
Forse già allora questa idea conservava anch’essa qualcosa di violento, le spighe dorate mature dai chicchi gonfi e preziosi “pativano la falce”, qualcuna cadeva.
Ma era un’altra Italia.
I dati degli scrutini di questo giugno, ma ce lo aspettavamo, dicono di un incremento dei respinti, di alunni non scrutinati per un numero di assenze eccessivo; in alcune scuole, con delibere a dir poco ardite, si è scelto di non andare oltre le due materie ( o discipline che siano), con tre materie si è ”bocciati”, terribile espressione, esclusivamente italiana, gli altri paesi europei per indicare l’insuccesso hanno utilizzato termini un po’ meno aggressivi (to pass in inglese, nicht promoviert in tedesco, redoubler in francese)
Il noto D’Avenia, nella sua rubrica del lunedì sul Corriere, giocando magistralmente con le parole, ha suggerito alla scuola di non bocciare gli studenti ma piuttosto di farli sbocciare. Una sanatoria dunque?
No, ma una seria riflessione su criteri e metodi per selezionare in una prospettiva di successo formativo. Sappiamo di scuole in cui questo percorso è attivato, in cui lo scrutinio è preceduto da colloqui con studente e genitori, in cui i docenti, esperti mercanti di stoffa, fanno convergere il proprio sguardo su chi sia lo studente, non solo su ciò che sappia.
Ma non è sempre così: ricordo ai non addetti ai lavori che il tempo dello scrutinio è contingentato, che sono molto complessi gli adempimenti burocratici e che spesso solo alcuni casi vengono affrontati con le dovute doti di tranquillità, competenza ed equità.
Nello scrutinio si esprimono ancora di frequente i due atteggiamenti opposti: un inopportuno buonismo o un eccesso di rigore del quale il “ti boccio” è l’espressione più enfatica, ma eloquente del clima di prevalente individualismo.
Decido io (da solo), tu, altro collega, non conosci gli elementi della mia disciplina che io ritengo irrinunciabili. Ti boccio, mio studente, o ti assegno il debito formativo. Nel secondo caso tuttavia i corsi di recupero attivati dalle scuole non sono sufficienti e per famiglie indigenti è impensabile l’attivazione di lezioni private.
Questo metodo non può più funzionare soprattutto nel paragone con altri sistemi molto più brevi del nostro.
Gli economisti sanno bene quanto costi un anno di scuola; qualche anno fa si accennava a 40mila euro per studente, ora probabilmente anche di più.
Molti Paesi europei hanno da tempo introdotto altri sistemi: se fai fatica in matematica (quasi tutti i nostri studenti faticano in matematica… altra questione da affrontare, Daniela Lucangeli da tempo ci sta provando) non potrai iscriverti al Politecnico o ad una facoltà in cui la matematica sia fondamentale, a meno di svolgere un corso propedeutico con esame finale.
In fondo i test universitari costituiscono un argine certo, perché non pensare a livelli diversi di certificazione?
I genitori descolarizzati o di origine non italiana, e sono molti, non sanno dove rivolgersi, si trascinano amareggiati da una scuola all’altra (i nulla osta sono ormai diffusissimi) in un percorso tortuoso, spesso preludio per il figlio al ruolo di Neet; i professionisti, quelli attrezzati si confrontano, paragonano performance e valutazioni e ci accusano ( se va bene) di un eccesso di arbitrarietà ( e un po’, è vero… non di originalità o di personalizzazione, di arbitrarietà, che è tutta un’altra cosa…) il professionista è ormai abituato a render conto del proprio lavoro in base a strumenti condivisi e leggibili e non sopporta più la reticenza che purtroppo si annida ancora nel mondo della scuola.
È davvero un sistema che non regge più.
Giuseppe Bertagna, da tempo dall’Università di Bergamo urla le sue soluzioni: valorizzare, ma soprattutto studiare il quadro comune europeo sulle competenze, categoria a cui la scuola superiore non vuole piegarsi (si pensi alla compilazione della certificazione di competenze al termine dell’obbligo e al curriculum dello studente in sede di esame di Stato), Giorgio Vittadini insiste (si legga l’articolo qui pubblicato “Pensare con le mani”), ma a noi, donne e uomini di scuola non interessa, noi vogliamo le conoscenze.
Non fa nulla se si tratta di conoscenze non sempre significative ormai, esse rappresentano la tavolozza essenziale per il docente, di lì non ci si schioda.
Eppure cupi segnali ci stanno dicendo che l’impianto è obsoleto. Un aneddoto, anzi due: il primo brevissimo, all’esame di Stato sempre più studenti dichiarano di non saper scrivere in corsivo, non i disgrafici… i pigri!
Il secondo, altrettanto gustoso: Teatro alla Scala, studenti liceali, spettatori nei palchi, hanno preferito seguire sul display il testo nel basic English per turisti perché il testo dell’antico librettista era troppo difficile… E noi ancora discettiamo dell’irrinunciabilità di certi autori, della necessità del tradizionale canone letterario.
Sulle difficoltà nella didattica della matematica e delle lingue straniere abbiamo già accennato ma è aperto il dibattito, in particolare per le lingue straniere le aziende segnalano un impegno eccessivo nel training iniziale dei nostri tecnici rispetto ai coetanei di altre nazioni, ma noi non vogliamo una scuola funzionale al mercato e quindi, per esempio, continuiamo a proporre molta letteratura in lingua a ragazzi che non leggono nemmeno in lingua madre…
Per concludere: dei metodi di arruolamento dei nuovi insegnanti si è già detto molto anche su questo giornale, si è già ampiamente sottolineato come la scuola abbia bisogno di professionisti, non di apprendisti, e i professionisti vanno cercati con metodi efficaci e possibilmente retribuiti in maniera dignitosa.
Ripensamento dell’organizzazione dell’anno scolastico con un investimento significativo sul periodo estivo (almeno fino al 10 luglio e dal 20 agosto) con una evidente revisione dei contratti di lavoro.
Stanno arrivando in questi giorni molti finanziamenti dai fondi del Pnrr per progetti antidispersione, ma solo ad alcune scuole e i criteri di attribuzione non sono chiarissimi… altre polemiche… altre guerre fra povere scuole!
Ancora, c’è bisogno di un impegno serio in termini di revisione dei curricula, distinguendo seriamente fra essenziali e opzionali e una formazione altrettanto seria su metodi e criteri valutativi, distinguendo fra dimensione certificativa (necessariamente standardizzata) e formativa.
I ragazzi per strada o peggio ancora, soli davanti allo schermo, non possono più stare, molti genitori non ci sopportano più, l’università sottolinea l’inadeguatezza della preparazione e il mondo produttivo anche.
Ovviamente abbiamo esperienze che andrebbero diffuse e replicate da guardare con straordinaria stima, si pensi all’esperienza di Portofranco o simili che ri-parano centinaia di ragazzi ogni anno, ma il sistema può essere riparato anch’esso.
Il rischio (anche legato alle potenzialità del Pnrr) è di enormi investimenti non finalizzati, la perdita di un patrimonio di tradizione ricchissimo che stenta a rinnovarsi e soprattutto la dispersione di tanti ragazzi dalle tante fragilità.
È urgente quasi quanto la questione ambientale, forse di più.
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