Il 4 dicembre scorso il ministero ha diffuso l’ordinanza sulla riforma della valutazione nella scuola primaria, che presto sarà estesa anche alla secondaria di primo grado, pretendendo che le scuole gettassero alle ortiche quanto esposto nei loro Ptof sulla valutazione, sul tradizionale documento di valutazione, sull’uso del registro elettronico per la valutazione, sul relativo raccordo con la pagella e adottassero immediatamente i dettami dell’ordinanza, esigendo infine che gli insegnanti cominciassero a ragionare secondo le linee guida e che venissero prodotte dalla stessa scuola pagelle conformi entro il 31 gennaio. Maestre nel panico.
Ma non è questo il problema principale. Il messaggio implicito è che la scuola si fa utilizzando delle tecniche, degli strumenti sempre più complicati che altri, gli studiosi, ti mettono a disposizione e che tu ti devi industriare ad applicare. Tutto seguendo regole prescrittive che riproducono normative europee e internazionali.
Il fatto paradossale è che, in ultima analisi, nella complessa architettura elaborata dal ministero per giungere a una valutazione esente da voti numerici, ciò da cui non si può scappare sono i livelli, cioè ancora una volta squallide misurazioni.
La stessa cosa avviene per la nuova normativa sull’inclusione. Vengono previste attività, organismi, interazioni che solo la fantasia malata dei burocrati del ministero può concepire e che mai saranno messe in pratica, perché neppure la normativa attuale, ben più agile, viene applicata.
Questa mole di pratiche si aggiunge ai già consolidati Ptof, Pdm, Rav, documenti anch’essi irrigiditi dentro una piatta compilazione di questionari su piattaforma ministeriale.
L’idea che prende forma da una visione globale delle pratiche messe in atto dal ministero è che l’insegnante fa bene il suo lavoro solo se conosce e applica delle tecniche, per di più imposte in modo vincolante dallo stesso ministero. L’alunno è visto come robot, la scuola come officina e l’insegnante come meccanico: applicando una serie di azioni, il robot viene riparato e comincia a funzionare. Manca l’uomo.
Le tecniche servono quando c’è l’anima e l’anima della scuola è la relazione.
Nella relazione affettuosa con l’alunno, accolto e rispettato nella sua dignità di persona, nella quotidianità di un rapporto punteggiato da mille micro-eventi, l’insegnante percepisce sinteticamente risorse e bisogni, li osserva e li valuta nella modalità più confacente al rapporto instaurato, si attrezza per migliorare la forza comunicativa, fonda alleanze con colleghi e genitori per rafforzare l’azione educativa, soffre se non raggiunge risultati, gioisce se li vede fiorire.
Le fredde tecniche della psicopedagogia di stampo anglosassone possono aiutare se c’è il primo requisito, ma applicate in modo asettico non servono. In particolare, nei confronti di alunni con difficoltà di apprendimento. È l’anima che dà forma all’azione; l’azione senz’anima avvizzisce.
E poi dov’è finita la decantata autonomia, quando si è continuamente vessati da decreti, riforme, ordinanze, prescrizioni di ogni genere?
L’educazione, l’istruzione è un evento, non un meccanismo. È l’incontro di due libertà e il suo risultato dipende da come ciascuno dei due attori si pone nei confronti dell’altro, soprattutto da come l’adulto educatore si pone di fronte alla persona dell’alunno. Se ha la consapevolezza di essere di fronte a un’esistenza voluta e amata da Dio, che gli è stata affidata, se concepisce il rapporto educativo come la vocazione entusiasmante della sua vita, se vede i colleghi come collaboratori fraterni in questo delicatissimo compito, allora il rinnovamento del sistema scolastico è possibile. Altrimenti ragnatele polverose invaderanno archivi pieni di inutili documenti.