Caro direttore,
a inizio gennaio la scivolata del Governo sull’emendamento Magi a favore dell’educazione sessuale nelle scuole ha mostrato una certa confusione del centrodestra nell’affrontare le questioni educative. Alla fine si sono destinati i 500mila euro a corsi di formazione e prevenzione sulle tematiche della fertilità maschile e femminile, ma rimane il problema di una politica dell’educazione che fino ad ora è stata più reattiva che strategica.
Dopo i fatti di Caivano si è ridiscusso di comportamento e disciplina nelle scuole, dopo l’omicidio di Giulia Cecchettin si è iniziato a parlare di progetti su stereotipi di genere, come sul divieto dell’uso del cellulare avvenuto dopo i diversi studi che evidenziano le conseguenze di un uso prolungato degli smartphone e dei social. Infine si è parlato di apertura del PNRR alle paritarie ma non di buono scuola.
Si potrebbe continuare con altri esempi, ma appare sempre più chiaro che, a parte l’insistenza sul concetto di “merito”, non si capisce bene verso dove si voglia portare l’educazione nel nostro Paese; anche perché l’impressione di molti addetti ai lavori è che alla fine non cambi praticamente nulla.
Tutto diventa sempre più burocratizzato e complesso – c’è una “piattaforma” per ogni aspetto della vita scolastica –, senza andare a risolvere i problemi quotidiani della scuola e senza una vera e propria visione. Siamo sicuri che miliardi di euro del PNRR impiegati per realizzare migliaia di corsi siano un aiuto concreto per cambiare la scuola italiana e non un modo per spendere il prima possibile i fondi, o per dare qualche soldo ai docenti, a cui tutti i partiti in campagna elettorale avevano promesso un adeguamento degli stipendi ai livelli dei docenti europei?
Idee contro la cultura woke sono spesso portate avanti anche da alcuni partiti del Governo, ma recentemente in alcuni concorsi per l’immissione in ruolo degli insegnanti alcuni candidati sono stati praticamente cacciati dalla prova orale perché nella loro presentazione di un’UDA (Unità didattica di apprendimento) avevano osato presentare una classe divisa tra maschi e femmine, pratica considerata ormai vecchia nella scuola attuale per qualche presidente di commissione.
Si rimane altrettanto perplessi sapendo che ancora nessuno nel ministero dell’Istruzione abbia detto o fatto nulla nei confronti di procedimenti che sollevano diverse perplessità, come l’istituzione della “carriera alias”, già applicata in diverse scuole d’Italia (in proposito sono state sollevate perplessità da esponenti degli stessi partiti di maggioranza).
Da ultimo, ha fatto notizia l’intervista nella quale il ministro Valditara ha annunciato la riforma delle Indicazioni nazionali per elementari e medie: latino facoltativo, più musica, stop alla “geostoria”, più storia italica, poesie a memoria.
Come se il problema fosse il “cosa” fare, quando tutti sanno per la propria esperienza che il problema è sempre “chi” fa scuola, l’insegnante innamorato della propria materia che riesce a far appassionare i propri alunni alla realtà, dalla poesia alla storia. Bisogna valorizzare il “chi” (insegnanti) e il “dove” (scuole) veramente si educa, sostenere e lasciare libertà di creare cose nuove a questi soggetti educanti, perché lavorare soltanto sul “cosa” rischia di apparire come l’ennesima trovata ideologica.
Chi lavora nel mondo educativo sa molto bene che ogni scuola è un regno a sé e che non bastano linee guida di principi calati dall’alto per poter “cambiare” la situazione difficile dell’educazione in Italia. Basterebbe guardare come viene attuato il divieto del cellulare a scuola (troveremmo centinaia di modalità diverse, dalla più permissiva alla più restrittiva) o il già citato uso della “carriera alias”, considerato legittimo da alcune scuole e non rispettoso della legge per altre.
Quello che manca alla scuola italiana e a chi la governa è una direzione concreta verso cui portarla e un’idea chiara di riforma, rischiando anche scelte impopolari ma che possano veramente segnare una svolta per i nostri ragazzi e per le famiglie.
Serve una riforma della scuola secondaria di primo grado, da troppo tempo abbandonata a stessa soprattutto in un’età (quella preadolescenziale) diventata molto critica; serve realizzare una parità scolastica effettiva che possa permettere una vera libertà di scelta delle famiglie, serve una maggior collaborazione con realtà formative (come associazioni professionali e università) che possano realmente aggiornare i docenti in un mondo che cambia velocemente; bisogna valorizzare quelle scuole che sono punto di eccellenza perché già stanno sperimentando “in basso” pratiche didattiche a cui ispirarsi per una seria riforma scolastica più generale.
Altrimenti rischiamo di assistere all’ennesimo modifica epidermica, come cambiare la valutazione sostituendo i giudizi con i numeri, facendo credere che si tratti di riforma fondamentale per educare meglio i ragazzi con lo spauracchio della bocciatura (evento già rarissimo nella scuola italiana del “merito”), creando soltanto caos nelle segreterie e nei docenti, con ulteriore burocrazia da gestire che impegnerà altro tempo ai docenti, togliendoli da ciò che li appassiona: l’amore per la propria materia e il rapporto con i propri studenti. Purtroppo sta già succedendo.
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