La scuola è appena iniziata, non ci sono incombenze pomeridiane particolarmente pressanti, così aspetto il mio amico Giuseppe ai tavolini del caffè di una piazza che fa ancora tanto vacanza. Ma l’illusione, come dice il poeta, manca. Appena arriva, Giuseppe strappa il velo di poesia a questo idillico quadretto che mi ero fatto. Mi chiede se ho letto l’intervista del ministro Fioramonti al Corriere, io confesso che ho comperato anche oggi la Rosa, come succede, appunto, d’estate, quando l’Inter è sempre più forte. Mi rimprovera e mi mette a parte della notizia: Fioramonti promette un aumento a tre cifre per gli insegnanti, specifica poi che le tre cifre sono due zeri preceduti da un uno. Cento euro, tanto per cominciare. Nell’intervista si parla anche di Invalsi, che il ministro non vorrebbe obbligatori, di investimenti per la ricerca, di togliere l’obbligo, ancora, di timbrare il cartellino per i dirigenti.
Mica sono impiegati i professori, sanno bene che stanno compiendo una missione. Ed è giusto che venga riconosciuto il loro valore, si sbilancia il ministro, dicendo anche che vorrebbe un paese in cui i migliori studenti manifestassero il desiderio di diventare insegnanti. Non mi sembrano cattive parole e mi sembra che nessuno dei miei colleghi sputerebbe sulle tre cifre promesse. Non la pensa così il vecchio Giuseppe. Secondo lui se il ministro voleva presentarsi con il suo biglietto da visita con su scritto aumenti e centralità ha sbagliato qualcosa. Puoi essere centrale per un paese se lo Stato decide di darti una mancia? Perché lo sanno anche i sassi che i 100 euro lordi diventeranno 60 e alla fine dell’anno, siccome hai superato la soglia, l’aliquota aumenta e i 60 diventano 50.
Ma è pur sempre meglio di niente, mi viene da dire.
Giuseppe non la pensa così, sembra avere il dente avvelenato. Intanto li diamo a tutti, sembra dire il ministro: è giusto? Giuseppe non vuole che lo fraintenda: è giusto anche per lui che tutti vengano pagati di più. Però, mi dice, guarda un po’ cosa succede: esco adesso dalla palestra in cui Marco, il mio collega di educazione fisica, lavora tutti i pomeriggi. Io faccio la terapia antalgica, lui un po’ di soldi. Può farlo, è nel suo pieno diritto, fa bene. Ma io non posso, che ho cento temi, verifiche, prove da correggere sempre. Anche solo per questo, forse, visto che tutti parlano di cose oggettive, si potrebbe pensare ad aumenti diversi? No, il ministro non ritiene che l’aumento sia un premio per lavorare di più: ma allora cos’è? Siamo alle solite: in Italia funziona sempre così, o l’una tantum, o una bella promessa, una mancia e poi tutto rimane come prima.
Giuseppe ha ancora in testa il racconto di chi è andato in pensione e vedrà la liquidazione – Giuseppe chiama ancora così il Tfr o Tfs che sia – solo tra due anni, la prima rata; la seconda tra quattro, qualcuno tra 6! Pare che la Consulta abbia chiesto al legislatore di provvedere a sanare questa palese ingiustizia. Si tenga i suoi 100 euro il signor ministro e faccia il suo mestiere, proponga una legge al parlamento, sani questa frode di Stato!
A Giuseppe che dice così, tra i tavoli in piazza, dico che mi sembra tirare sempre l’acqua al suo mulino: lui è professore di lettere e ha già sessant’anni, non è che l’aumento e la legge la vuole solo per lui? Mi guarda un po’ esterrefatto e mi dice che sono anch’io un professore di lettere e i 60 li vedo già dietro l’angolo. E che ha figli che hanno scelto di fare lo stesso mestiere, perché, come dice il ministro, è gente che ama questo lavoro e non lo cambierebbe per niente al mondo. Come lui, come me. Ma non si può continuare a giocare con il cuore e l’orgoglio degli insegnanti. E allora, li vuoi 100 euro o no, caro Giuseppe? Sì, dice bevendo il suo analcolico alla frutta. Come la scuola, dice: mi adeguo.
Ci pensi signor ministro e vinca la sua infatuazione per le sirene finlandesi: la scuola italiana ha dentro un battito che altri non hanno. Lo chieda a Giuseppe e a tutti quelli che ogni giorno ricominciano a guardare negli occhi gli alunni, chiedendo per primi a se stessi di essere veri, di essere ancora pronti a imparare.