L’autonomia scolastica diventò norma il 1° settembre 2000, ma il “mondo nuovo” tanto atteso nella scuola non ci fu. Le ragioni di un fallimento (1)
L’autonomia scolastica diventò norma il 1° settembre 2000, dopo un triennio fittissimo di interventi: sul quadro legislativo, in primo luogo, e poi sulla rete scolastica (ridotta di quasi un quarto), e sulla formazione degli ex presidi e direttori didattici (tutti transitati nel nuovo ruolo di dirigenti scolastici senza esami, ma con la frequenza obbligatoria per tutti di un corso specifico di 300 ore).
L’attesa era fortissima, ma il disincanto non tardò a manifestarsi, accompagnato da una grande varietà di analisi circa le ragioni della mancata epifania del mondo nuovo tanto atteso.
Venticinque anni dopo è inevitabile chiedersi se ci sia ancora spazio per un rilancio di quella scommessa ed a quali condizioni.
Chi scrive, avendo attraversato gli ultimi sessant’anni delle vicende scolastiche nazionali, ha maturato la conclusione che l’autonomia non è decollata sostanzialmente perché non ne sono state comprese le radici politiche generali e neppure il senso didattico intrinseco.
Circa le prime, ci si riferisce ovviamente al principio di sussidiarietà, che voleva trasferire la sede di gestione dei problemi collettivi alla sede decentrata idonea a risolverli più vicina ai cittadini interessati. Decentramento amministrativo, ma non solo. È accaduto invece il contrario, complice la crisi economica mondiale dei primi anni duemila: mai come negli ultimi quindici anni abbiamo assistito al rafforzarsi di una gestione centralistica della pubblica amministrazione, apparsa necessaria per garantire il controllo della spesa.
Quanto alla finalità intrinseca, e cioè didattica, dell’autonomia, non è mai maturata la piena consapevolezza che essa coincideva con la ricerca del massimo successo formativo possibile a livello individuale, nelle condizioni sociali date.
Ci sono due pregiudizi che contribuiscono a spiegare questo fraintendimento.
1) Il primo è quello per cui il successo formativo consiste nel numero dei diplomati, a prescindere dal livello reale della maturazione di ciascuno. Così facendo, l’attenzione si sposta dall’individuo ai grandi numeri: e si perde di vista il fatto fondamentale che l’istruzione è un bene individuale, che è tale solo nella misura in cui il singolo l’acquisisce e la fa propria.
Il numero dei diplomati è tutt’altro che un dato irrilevante: ma ci dice altro, in quanto si tratta di un dato statistico e cioè collettivo. Basta scavare anche poco sotto la superficie, per rendersi conto che parte di quel dato è frutto di dinamiche che poco hanno a che fare con la maturazione formativa dei giovani interessati.
Di recente, l’INVALSI ha tentato di elaborare un indicatore che misurasse questa situazione: è quello che viene indicato con il termine di dispersione implicita, cioè il numero di coloro che hanno conseguito il diploma, ma che non sono in possesso delle competenze minime corrispondenti. Di coloro, cioè, per cui il dato statistico non corrisponde al dato sostanziale. Questo scarto è stato misurato, con molta prudenza, nella misura di circa il 7% medio nazionale: ma, in alcuni territori, sale anche oltre il 15%.
2) Il secondo pregiudizio riguarda la percezione della scuola come ascensore sociale, o piuttosto come “ascensore sociale mancato”. Si lamenta, cioè, che la scuola tenda a riprodurre in uscita le differenze socio-culturali che riceve in entrata, senza compensazioni sostanziali.
Si tratta di un’accusa assai grave, in quanto implica che la scuola, nella sostanza, sia inutile: non riesca, cioè, ad apportare un valore aggiunto significativo al capitale umano che riceve dalla società. Ma si tratta anche di un pregiudizio, perché non tiene conto del fatto che la scuola prende in carico i propri alunni all’età di tre anni, quando l’eredità del contesto sociale si è ormai consolidata.
Non solo, ma un 40% circa del totale non approda in classe prima dei sei anni: e si tratta proprio di quella quota più svantaggiata, sia a livello familiare che territoriale, per i quali più sarebbe importante un intervento correttivo immediato.
C’è un altro errore di prospettiva in questa convinzione: essa parte dal presupposto che la scuola abbia il pieno controllo sulle dinamiche di apprendimento e di sviluppo dei propri alunni. Invece, anche nelle ipotesi più favorevoli di tempo pieno, essa controlla solo un terzo del tempo giornaliero (8 ore su 24). E, in tutto il resto dei casi (che, ancora una volta, sono quelli che si presentano a scuola con un maggior divario negativo di partenza in ambito socio-culturale), solo meno di un quarto (5 ore su 24).
Non solo: la scuola dura, in teoria, 200 giorni l’anno: appena il 55% del tempo totale. Combinando le due frazioni (ore/giorno e giorni/anno), si vede che la scuola ha la possibilità di agire solo per una quota che va dal 12% al 18% dei 13 anni di cui in teoria dispone per svolgere il proprio mandato.
Attendersi che, in queste condizioni, essa riesca a funzionare come un ascensore sociale, cioè a modificare in modo significativo i condizionamenti socio-culturali in entrata, significa attribuirle poteri che non potrà mai avere ed alimentare attese del tutto irrealistiche.
Non vi sono ovviamente rimedi semplici per una tale situazione. Non si può ovviamente pensare di sottrarre i bambini alle loro famiglie fin dal momento della nascita e di restituirli vent’anni dopo, del tutto riprogrammati.
Neanche Orwell si spingeva ad immaginare tanto nella sua utopica visione del Mondo Nuovo. Ma non si può neppure accettare che la scuola sia del tutto impotente rispetto alla sua missione sociale, che fra l’altro assorbe risorse importanti e dalla cui riuscita dipendono le prospettive di sviluppo di un Paese intero.
Il problema diventa allora: qual è la misura ragionevolmente possibile di compensazione sociale che la scuola può aspirare a raggiungere con i propri mezzi, cioè a condizioni esterne date? E quali sono le pre-condizioni a sua disposizione per poterlo fare?
(1 – continua)
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